L’EVOLUZIONE CONCETTUALE NELLA NATO
Introduzione-I prodromi della NATO
Il progressivo deteriorarsi delle relazioni fra Stati Uniti ed Unione Sovietica, in conseguenza del pronunciato espansionismo di questa ultima, fu la ragione fondante della NATO, voluta dal Presidente Truman quando egli fu alla fine costretto a rivedere l’approccio finora seguito, per conseguire un assetto post-bellico del mondo che fosse, il più possibile, stabile e favorevole al suo Paese.
Questa revisione era un modo, sia pure tardivo, per trarre le conseguenze dal fenomeno, così ben descritto dal termine “Cortina di Ferro” coniato da Churchill già nel 1945, nel suo telegramma al Presidente Truman, nel quale diceva: “quale sarà la situazione fra un anno o due? A quell’epoca gli eserciti americano e britannico si saranno sciolti, i Francesi saranno ancora lontani dall’essersi organizzati su ampia scala, mentre la Russia potrà decidere di tenere attive due o trecento divisioni. Una cortina di ferro si è abbattuta sul loro fronte: ignoriamo tutto quello che avviene dietro di essa”. Non è nota la reazione del Presidente Truman, ma il Premier britannico era un uomo tenace, tanto che un anno dopo insistette sul tema, “nel suo discorso di Fulton, il 5 marzo 1946. In quell’occasione, egli aveva fatto appello ai popoli di lingua inglese affinché opponessero una diga alle ambizioni sovietiche”.
Va detto che, da un certo punto in poi, tale processo politico fu sostenuto, come del resto dovrebbe avvenire ogni volta, da un’elaborazione strategica, condotta a livello militare, che definì, volta per volta, la situazione militare e le esigenze di forze, in modo da consentire le decisioni su di una base concreta, senza fughe in avanti, rispetto a quanto fosse fattibile.
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Le prime tracce di questa pianificazione militare sono riportate dal diario di James Forrestal, all’epoca Segretario di Stato per la Marina USA.
Alla data del 3 settembre 1946, infatti, si legge : “l’Ammiraglio Ramsay mi ha informato oggi che alla riunione del Capo di S.M. Difesa con i rappresentanti dell’Esercito e della Marina britannici si è tenuta una discussione generale sulla questione di quali forze gli USA e la Gran Bretagna avevano disponibili per fronteggiare un’eventuale emergenza. Ne è emerso che nessun piano concreto era stato sviluppato, in quanto nessuno (a livello politico) aveva posto la domanda. L’Ammiraglio Leahy (il Capo di S.M. Difesa) ha continuato ad insistere che vi dovrebbero essere risposte specifiche e concrete, specialmente per quanto riguardava una pianificazione chiara e precisa sui movimenti in Europa e sul supporto. I Britannici hanno concordato che avrebbero inviato i loro pianificatori del massimo livello delle tre Forze Armate, e che la riunione avrebbe dovuto tenersi a Washington.
Essi, peraltro, erano molto preoccupati della sicurezza, e pensavano che la riunione avrebbe dovuto tenersi su base informale. Il problema più importante sarebbe come estrarre dalla Germania le forze di occupazione americane e come appoggiare i Britannici e gli Americani nell’area di Trieste”.
Come si può notare, gli USA affrontarono, fin dall’inizio, la crisi dovuta all’espansionismo sovietico su base bilaterale, con i fedeli alleati britannici. Ancora più interessante è l’orientamento iniziale circa l’esame della possibilità di un ritiro dalla Germania, attraverso l’Austria occidentale, nel caso di un’offensiva terrestre sovietica, mentre appare chiara l’intenzione di non fare altrettanto sul fronte del nord-est italiano, per il quale il Segretario alla Marina intendeva esaminare la possibilità di resistere, facendo quindi uso dell’Italia come base di ripiegamento ed eventualmente, anche la testa di ponte per una controffensiva. Peraltro, pochi giorni prima, il 22 agosto, vi era anche stata la visita a Londra dell’Ammiraglio Mitscher, che era sul punto di assumere l’incarico di Comandante in Capo della flotta Americana dell’Atlantico. Durante un colloquio con il Primo Lord del Mare, l’Ammiraglio Cuningham, quest’ultimo, dopo aver spiegato “i problemi politico-militari del Mediterraneo e come i Britannici tentassero di gestirli, ma non potevano farlo senza un aiuto sostanziale dagli Stati Uniti” giunse a chiedere che “gli Stati Uniti dislocassero (nel Mediterraneo) un numero significativo di unità e le aggregassero alla piccola forza navale britannica a Malta”.
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L’Ammiraglio americano, ovviamente, rispose che, se questa dislocazione fosse avvenuta, sarebbero stati loro a prendere il comando, visto che la maggioranza delle forze sarebbe stata la loro, ed il suo interlocutore dovette accettare questa condizione.
Naturalmente, l’esito di questo colloquio fu riportato a Washington, insieme agli elementi di preoccupazione britannici sul Mediterraneo, dove la Grecia era sconvolta dalla guerra civile, e l’Unione Sovietica avanzava richieste sugli Stretti Turchi, dopo aver denunciato, nel marzo 1945, il trattato di amicizia e neutralità che legava i due Paesi fin dal 17 dicembre 1925.
Inoltre, la Jugoslavia aveva un atteggiamento aggressivo verso gli Alleati, e solo l’ultimatum americano del 21 agosto 1946 riuscì a riportarla alla ragione, mentre l’esodo in massa degli Ebrei, scampati dai campi di concentramento in Germania, verso la Palestina, malgrado i tentativi britannici di impedirlo, minacciava di far scoppiare un conflitto in Medio Oriente.
Fu così che, il 30 settembre 1946, il Dipartimento della Marina USA rilasciò un comunicato stampa, nel quale si affermava che: “le unità della flotta americana erano state nel Mediterraneo e avrebbero continuato ad esserci, per sostenere le forze americane in Europa, per porre in esecuzione la politica e (le missioni di) diplomazia e a beneficio dell’esperienza, del morale e dell’istruzione del personale della flotta”. Da quel momento, gli USA dislocarono regolarmente nel bacino, oltre all’incrociatore pesante, che mantenevano all’epoca, anche corazzate e portaerei, riunite nella Sesta Flotta.
Questa misura, peraltro, era parte di un piano piuttosto articolato, secondo il quale, a parte il rafforzamento della presenza navale alleata, “la Gran Bretagna avrebbe fornito armamenti alla Turchia ed alla Grecia. Nel caso in cui questo le risultasse impossibile, gli Stati Uniti avrebbero passato alla Gran Bretagna le armi per il loro successivo invio ai destinatari, a cura di quest’ultima”. È doveroso riconoscere che questo approccio determinato ebbe successo: come, infatti, lo stesso Segretario Forrestal osservò nel suo diario, “la scorsa estate (1946) quando i Russi iniziarono a premere sulla Turchia per i Dardanelli, l’apparizione di unità da guerra americane nel
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Mediterraneo fu seguita dalle prime dichiarazioni distensive del presidente Stalin, a fine settembre”.
Come si può notare, gli Anglo-Americani vedevano, in caso di emergenza, la necessità di “arroccarsi” sul Mediterraneo, per poi, eventualmente ripartire da tale bacino, quando pronti a reagire. La Francia, il cui confine sul Reno sarebbe diventato la frontiera fra Est e Ovest, dopo l’eventuale ritirata dei suoi Alleati dalla Germania, era stata dotata, nel frattempo, di una notevole quantità di armamenti, specie aerei tattici, affinché potesse resistere ad un attacco dei Sovietici.
A questo fine, quanto il Presidente Truman, il 12 marzo 1947 enunciò la sua Dottrina, il Congresso stanziò una cospicua somma di denaro, “400 milioni di dollari di aiuti alla Grecia e alla Turchia”. Ma non era tutto, visto che non era possibile far perno sul Mediterraneo da quei due Paesi essendo essi troppo avanzati geograficamente nel bacino, oltre ad essere isolati, rispetto alla Germania occupata.
Non sorprende, quindi, l’affermazione dell’Ammiraglio Nimitz, nell’aprile 1947, fatta proprio nei giorni in cui falliva la conferenza di Mosca, sul trattato di pace con la Germania. Egli, infatti, “espresse l’opinione che l’Italia fosse un Paese di grande importanza per gli Stati Uniti; e che si dovesse fare di tutto per aiutarne la rinascita ed estendere ogni possibile assistenza per ricostruire le sue forze armate”. La firma del Trattato di Pace, da parte dell’Italia, entrato in vigore il 15 settembre successivo, fu la condizione abilitante per questi aiuti, che affluirono rapidamente nel nostro Paese.
Come si può notare, guardando le date del processo politico, si verificò un’improvvisa accelerazione degli eventi, dopo il marzo 1948, quando la Cecoslovacchia si dotò “spintaneamente” di un governo comunista. La ragione di questa accelerazione era di carattere strategico: grazie alla loro presenza in tale Nazione, oltre che nella metà orientale dell’Austria, le forze terrestri sovietiche erano ora in grado di isolare con un’offensiva improvvisa, quando lo avessero voluto, la Germania dall’Italia, impedendo così alle forze americane ogni ripiegamento verso l’Italia, dove avrebbero potuto raggrupparsi.
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Se è vero, come è vero, che furono i Paesi europei, firmatari del Trattato di Bruxelles del 4 marzo 1948, ad insistere affinché gli Stati Uniti si unissero a loro nella difesa collettiva dell’Europa occidentale, va considerato che, dopo la “comunistizzazione” della Cecoslovacchia, e soprattutto dopo il blocco di Berlino, anche agli Stati Uniti risultò evidente che, se volevano rimanere con le loro forze terrestri in Europa, essi non potevano più farlo da soli.
Un precursore dei piani NATO
Mentre il mondo europeo veniva scosso dalla progressiva espansione della zona d’influenza sovietica, uno studioso italiano di strategia, l’Ammiraglio Oscar di Giamberardino, pubblicò nel giugno 1947 un libretto, intitolato “Il Prossimo Conflitto Mondiale”, preso l’editore romano Danesi, con sede in via Margutta.
L’Ammiraglio era ben noto all’estero per il suo libro, “L’Arte della Guerra in Mare”, pubblicato dallo Stato Maggiore Marina e tradotto in inglese, tedesco, portoghese, spagnolo; inoltre, era stato fatto un estratto del libro in lingua svedese. Questa nuova opera, che purtroppo non ebbe una notevole diffusione, riveste peraltro un interesse particolare per noi, in quanto anticipa la sostanza di tutti i piani NATO della Guerra Fredda, essendo basata su di un’analisi geo-strategica di notevole acume.
Anzitutto, l’autore esprime un dubbio: “resteranno i due aspiranti al primato (gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica) pacificamente nelle loro zone di influenza, facendo schermaglie di furberia e guardandosi magari in cagnesco, oppure scenderanno prima o poi sul ring?”. Come si vede, già allora l’ipotesi che il confronto fra i due blocchi avrebbe potuto essere una “Guerra Fredda”, come poi è di fatto accaduto, non era considerata da scartare, secondo l’autore.
Peraltro, nel caso di guerra, dopo aver avvertito che non ci si dovesse illudere che l’arma atomica avrebbe potuto rendere breve quel conflitto, fin dalle prime pagine l’autore afferma che “la guerra russo- angloamericana, sotto l’aspetto strategico, si presenta in maniera molto caratteristica: come lotta fra la terra e il mare, fra l’immensità delle steppe e l’immensità delle acque. Ciascuno dei contendenti ha per elemento di forza un vasto spazio, dove l’altro ha o l’impossibilità o grande difficoltà a penetrare”. L’interesse storico, fin dai tempi della Russia zarista, verso un accesso
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sicuro ai mari caldi è il primo aspetto che l’autore considera. Per questo, in un’ottica di conflitto armato, “Costantinopoli rappresenta un fulcro di capitale importanza, e le due potenze occidentali subirebbero già una perdita forse irreparabile qualora i Dardanelli e il Bosforo passassero sotto il controllo russo”. Da notare che, per difendere gli Stretti Turchi, come questi sono ora denominati, il mantenimento della Grecia all’Occidente, come base di proiezione, viene considerata essenziale dall’autore.
Ma non vi è solo la corsa verso i Dardanelli, oggi chiamati, nella terminologia NATO, gli Stretti Turchi, che garantisca all’Unione Sovietica l’accesso ai mari caldi. Come l’autore osserva, “ nell’Afghanistan c’è da varcare una zona aspra, quasi impervia, prima di sboccare alla pianura dell’Indo e mettere in pericolo l’India. (In compenso), tutta la faccenda dell’Azerbaigian iranico, dove i Russi hanno disteso la loro stretta influenza politica, non è che una sapiente avanzata sino ai margini meridionali della zona montuosa, in modo da avere poi facile sbocco militare sull’Iraq, ossia sulla zone petrolifera di Mossul, paralizzando gli oleodotti che vanno al mare, a Tripoli di Siria e a Caifa”.
In effetti, le politiche “soft” dell’Unione Sovietica verso l’Iraq di Saddam e l’Iran degli Ayatollah, nonché l’invasione dell’Afghanistan vanno lette alla luce di questo imperativo – ed in effetti lo furono, tanto da suscitare le reazioni occidentali, in tutti questi casi.
Per quanto riguarda un’eventuale invasione dell’Europa, l’autore previde la possibilità di un’invasione dell’Italia, partendo “dal territorio di Trieste e dalla Slovenia. Anche la completa occupazione della Germania è da prevedere, con eventuale ulteriore marcia ancora più a ponente”.
Lo scopo di questa avanzata, peraltro, “risponderebbe ad un tentativo per spostare la zona di urto con gli Anglo-Americani il più lontano possibile dal territorio russo, il che darebbe ai Russi un grande vantaggio iniziale, sempre che gli avversari accettassero l’invito e non manovrassero invece diversamente, attaccando più verso oriente”, aggirando in tal modo il dispositivo sovietico, sbilanciato in avanti, causandone in tal modo il crollo. Su questo punto, peraltro, l’autore avanzava anche un’altra riserva, ben fondata: “È da tener conto, tuttavia, della scarsa capacità da parte bolscevica di mantenere le lunghe linee di comunicazione con i paesi invasi dell’ovest, anche col massimo sfruttamento delle risorse locali, senza preoccuparsi troppo dei bisogni delle popolazioni”. Il “punto culminante” dell’offensiva sovietica, quindi, sarebbe rimasto, secondo l’autore, ben lontano dalle rive dell’Atlantico, e non necessariamente per merito degli Occidentali.
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In definitiva, un’eventuale invasione sovietica dell’Europa occidentale “non è poi affatto un’azione offensiva, come può sembrare a prima impressione, ma è piuttosto un atto difensivo. L’offensiva si fa contro il vero principale nemico, non contro terzi, che possono essere magari titubanti se schierarsi da una parte o dall’altra”.
Ovviamente, qui l’autore non considerava il desiderio sovietico di sfruttare i Paesi eventualmente conquistati, dato il loro stato di estrema prostrazione; solo nei decenni successivi questo aspetto sarebbe entrato fra i fattori di situazione, nella pianificazione sovietica. Per converso, solo con “una manovra terrestre, tendente a strozzare le comunicazioni marittime (occidentali) negli stretti, e precisamente a Gibilterra, Suez e Dardanelli, e tentare così di far prigioniere in un mare interno le grandi spedizioni di sbarco penetrate nel Mediterraneo e nel Mar Nero, (e) analogamente, con la riconquista della Danimarca, le truppe bolsceviche metterebbero a mal partito una spedizione alleata penetrata nel Baltico, che stesse costituendo una testa di sbarco verso gli attuali confini occidentali della Russia”.
Ovviamente, Gibilterra avrebbe potuto essere attaccata solo “se nella Spagna vi fosse già stato il cambiamento di governo, con l’avvento dei repubblicani a tendenza più o meno comunista”, un evento politico, sul quale l’autore non elabora, mantenendo una prospettiva puramente strategica.
Anche in altri settori, che potrebbero essere oggetto di avanzate sovietiche, l’autore non intravede altro che la possibilità di limitati guadagni, come nel Caucaso, per “spingere più verso Sud i suoi confini meridionali, (o addirittura, nel caso migliore, con) l’assorbimento politico dell’Azerbaigian iranico e non solo tenere in pugno l’Iran occupando con breve marcia la sua capitale Teheran, ma estendersi ai limiti meridionali del massiccio montano di quella aspra regione, in modo da affacciarsi sulla zona di Mossul”, in modo da privare i Britannici delle loro concessioni petrolifere nei due Paesi.
Anche in Asia, fermo restando il desiderio sovietico di accedere ai mari caldi, l’autore nota giustamente che un loro controllo militare dell’India non sarebbe possibile, ed altrettanto potrebbe avvenire per la Cina, dove, anche se l’intera Nazione “fosse invasa dai bolscevichi, ciò non avrebbe alcuna influenza sulla capacità offensiva degli Anglo-Americani, aventi il loro territorio inviolabile”.
Infine, per quanto riguarda l’Artico, oggetto di studi, come rileva l’autore, fin dal 1920, avendo l’Istituto Artico di Leningrado “organizzato oltre 250 spedizioni idrografiche e geografiche”, secondo lui “è più probabile che vi si possano sistemare stazioni di lancio per proietti-razzo, i quali avrebbero vasti e importanti bersagli sia in America che nell’Eurasia”. In effetti, questo accadde dopo l’introduzione dei sottomarini nucleari, e l’Artico è stato per decenni il teatro silenzioso di una serie ininterrotta di azioni fra sottomarini dei due blocchi, fortunatamente senza spargimento di sangue.
Il giudizio finale sulle possibilità sovietiche di ulteriore espansione è la valutazione più lungimirante di tutto il libro: “alla resa dei conti, alla fine del conflitto, la parte perdente dovrebbe cedere tutto ciò che avesse acquistato in guerra. Perciò le conquiste che non intaccano la resistenza e la capacità offensiva del principale nemico, si riducono in guerra a pura perdita di tempo, di uomini e di risorse, cioè ad una dispersione di forze, proprio quando c’è tutto da guadagnare nel tenerle concentrate”. Quindi, l’URSS avrebbe guadagnato poco nell’attuare un’espansione con la forza delle armi, e in effetti usò le forze terrestri di cui disponeva più per tenere l’Europa sotto pressione che per altri fini.
Comunque, anche ammesso e non concesso che i Sovietici avessero intrapreso una delle possibili offensive che l’autore aveva intravisto, quale avrebbe potuto essere la controffensiva degli Anglo-Americani, sempre secondo l’autore?
Innanzi tutto, l’autore aveva ricavato, da un articolo di stampa del gennaio 1945, trovato nella rivista mensile “The Readers’ Digest”, delle indicazioni su come gli Stati Uniti intendevano affrontare la loro preparazione bellica. Queste indicazioni, lette a distanza di sessant’anni, sono sorprendenti per la loro accuratezza, tanto da far tornare alla mente, a titolo di conferma, quanto sia importante, nell’Intelligence, l’esame delle cosiddette “fonti aperte”, per intenderci i giornali del Paese oggetto della ricerca di informazioni.
Sulla rivista veniva, infatti, riportato che gli Stati Uniti avrebbero dovuto “premunirsi innanzi tutto dalle sorprese, seguendo passo passo la preparazione del presumibile nemico, e possedere sopra tutto la migliore forza aerea del mondo, con priorità nel materiale e nell’organizzazione, nonché la più forte marina. Avere poi un esercito con due milioni di uomini, ma mobilissimo, altamente motorizzato, capace di trattenere l’aggressore sino a quando non fossero raccolte le riserve. Dietro queste forze operanti, (doveva esserci) un’industria bellica che possa immediatamente essere rinforzata dall’intero potenziale delle industrie americane, convenientemente preparate”.
Grazie a questo formidabile arsenale, “all’assalto dell’immenso territorio russo, chiuso come una fortezza, andrebbero dunque principalmente le macchine”, mentre la controffensiva, per sconfiggere l’eventuale invasione sovietica in Occidente, “sarebbe quindi una formidabile manovra strategica a tenaglia, navale ed aerea, dal Baltico e dal Mar Nero, in modo da strozzare il colosso moscovita con l’offesa dall’aria, nella zona degli Urali e svellere l’Europa dall’Asia”. In sintesi, l’accoppiata costituita dal bombardamento strategico e da sbarchi in forze era vista dall’autore, già allora, come la risposta più logica ed efficace, da parte dell’Occidente.
Bisogna rilevare, a questo punto, l’unica previsione dell’autore che non si sia materializzata in seguito; come vedremo infatti, nella pianificazione NATO dei decenni successivi, la manovra a tenaglia, nel settore nord, sarebbe stata prevista dalla Norvegia anziché attraverso il Baltico – un bacino troppo ristretto ed eccessivamente vicino alle fonti della forza militare sovietica per poter essere un’area di possibili sbarchi anfibi massicci, nelle fasi iniziali di un conflitto.
Non manca, nel libro, una discussione approfondita sui pro ed i contro dell’arma atomica, tanto che l’autore arriva ad affermare: “si può pensare tuttavia che, per mutuo tacito accordo, non si faccia uso della terrificante bomba, com’è avvenuto per i gas nell’ultimo conflitto”. L’equilibrio del terrore, che ha caratterizzato i decenni successivi, era stato quindi già messo in debito conto dal lungimirante autore.
La Strategia del Contenimento
Abbiamo accennato, all’inizio, che la politica degli Stati Uniti, durante i primi anni del dopoguerra, “continuò ad essere una di reazione e riluttanza, mentre gli Europei cercavano un rapporto di sicurezza più stretto” con loro. Infatti, “solo dopo la crisi di Berlino i funzionari americani iniziarono a favorire qualche forma di associazione difensiva (peraltro) lasca con l’Europa Occidentale. L’Unione Europea Occidentale richiese formalmente negoziati con gli Stati Uniti su di un Trattato Nord Atlantico nell’ottobre 1948”.
Sappiamo che la firma del Trattato avvenne il 4 aprile 1949, mentre il processo di ratifica fu concluso, a tempo di record, il 24 agosto successivo. Pochi giorni dopo, si ebbe la prima sessione del Consiglio Atlantico, che, fra gli altri provvedimenti, istituì il Comitato di Difesa, a livello Ministeriale, ed il Comitato Militare, in modo da procedere allo sviluppo dei piani difensivi coordinati.
Naturalmente, il lavoro consistette nell’attuare la dottrina del contenimento, che, come era stata intesa, fin da allora, era una vera e propria “grande strategia, concepita per favorire gli interessi di sicurezza americani”, in quanto il Piano Marshall ne fu una parte fondamentale. Come si vede, fin dall’inizio la NATO non si limitò ai soli aspetti militari della difesa collettiva, contrariamente a quanto, negli ultimi decenni,
alcune Nazioni hanno sostenuto. In questa sede, peraltro, interessa l’aspetto di strategia militare, che verrà quindi esaminato in modo più approfondito.
Come osservò il senatore J. F. Kennedy, in un suo discorso, “questa strategia (di contenimento) si fondava su due posizioni di monopolio di cui disponevamo a quell’epoca. Anzitutto noi soli potevamo esportare in Europa e nei paesi sottosviluppati capitali e assistenza tecnica. Il secondo nostro monopolio si suddivideva in due parti. Possedevamo il monopolio delle armi nucleari ed eravamo in grado di metterle a segno. La strategia originaria della NATO si foggiò nello stampo di questo duplice fatto. Essa partiva dal presupposto di poter creare un’alleanza delle forze di terra dell’Europa occidentale, sufficiente a contenere ogni operazione diversiva che i comunisti intraprendessero per saggiare la volontà di resistenza dell’Occidente. Si poteva d’altro canto, in prospettiva, dissuadere i comunisti da un’aggressione su vasta scala, o respingerla, grazie alle bombe nucleari del Comando Aereo Strategico degli Stati Uniti. Anche se le componenti terrestri delle forze della NATO non raggiunsero mai il livello originariamente programmato, ed anche se si ruppe l’equilibrio della composizione politica delle forze costituenti, c’era nel concetto strategico sostanziale vitalità, bastevole a salvare l’indipendenza dell’Europa occidentale”.
Guardando una carta geografica, si nota che il territorio NATO in Europa, agli inizi, era sostanzialmente una serie di enclave isolate, a parte la limitata porzione del Continente, costituita da Francia, Italia e Benelux, l’unica ad avere una certa continuità geografica. Norvegia e Danimarca a Nord, nonché Grecia e Turchia (entrate nella NATO nel 1952) erano infatti come delle isole, ognuna confinante con il territorio “nemico” ed erano quindi ognuna bisognosa di rinforzi via mare, in caso di aggressione, con il rischio di sentirsi dire: “a voi penseremo dopo!”. Rimanevano l’Islanda, una base essenziale per sostenere i reparti di protezione dei convogli transatlantici, peraltro esposta ad attacchi aerei, mentre l’unica Nazione ad essere esente da minacce di aggressione diretta era il Portogallo, la cui importanza era soprattutto quella di costituire terminale sicuro per i rifornimenti, nonché quella di fornire, grazie alle sue isole atlantiche, delle ulteriori basi per le forze di protezione ai convogli. Bastarono pochi mesi per mettere in pratica la strategia del contenimento. Infatti, “il Comitato di difesa, riunito a Parigi il 1° dicembre 1949, mise a punto di comune accordo una dottrina strategica per la difesa integrata della zona della NATO”. La dottrina Truman aveva trovato quindi la sua dettagliata attuazione.
Al di là, quindi, dei fronti secondari, presto definiti come “fianchi”, la NATO aveva, in sintesi, in caso di attacco, la Germania Occidentale come terreno di manovra, con il Passo di Fulda ritenuto essenziale per ogni battaglia d’arresto, ed il Reno come linea di difesa principale. Non era una vera e propria difesa in profondità, dati gli spazi piuttosto limitati disponibili fra il Reno ed il mare, tanto che, nella riunione del Consiglio del 18 settembre 1950 “le discussioni si concentrarono sul problema di come difendere la zona della NATO da un’aggressione simile a quella che si era verificata in Corea, e fu riconosciuto che si doveva adottare in Europa una strategia avanzata, cioè prevedere la resistenza all’aggressione il più possibile ad est, in modo da assicurare la difesa di tutti i Paesi europei dell’Alleanza”.
I motivi politici di tale approccio erano chiari, anche se con questo si sanzionava la ripetizione dell’errore commesso dalle forze anglo-francesi nel 1940, quando spostarono le loro forze verso il confine fra il Belgio e la Germania, invece di attendere il nemico dietro posizioni preparate da tempo. Da noi, la “soglia di Gorizia” aveva la funzione di linea di difesa avanzata, nel caso di un attacco a Sud, con il progetto di una ritirata graduale, appoggiandosi ai fiumi del Triveneto, per ridurre progressivamente la spinta offensiva sovietica, fino al suo auspicato arresto sulla linea del Piave, come nel 1917.
Il deterioramento delle relazioni fra la Jugoslavia e l’Unione Sovietica, peraltro, offriva la possibilità di far perno sulla soglia di Lubiana, tanto che “il 21 settembre 1951, il SACEUR dispose che l’Italia fosse difesa lungo il fiume Isonzo, cioè, in parte, nella Jugoslavia. In risposta al questo chiaro auspicio, espresso dagli USA, il Comando Militare jugoslavo assunse, apparentemente, l’impegno informale (non scritto) di difendere la soglia di Lubiana e gli approcci a Klagenfurt, Villach, Trieste e Gorizia”, invece di ripiegare verso il Montenegro, come molti, incluso l’Ambasciatore Austriaco negli USA Grüber, pensavano, in base al precedente del 1916.
Di questo accordo, che sembra prevedesse anche lo spostamento ad est di forze terrestri USA, in appoggio agli Jugoslavi, è rimasta per anni traccia come la possibilità di prevedere le cosiddette “cross-border operations”, quando ordinato dal Consiglio. Le linee di comunicazione degli Eserciti alleati erano quelle marittime,
attraverso l’Atlantico, linee da difendere ad ogni costo, pena il rapido collasso delle difesa terrestre. Le forze navali da battaglia, in maggior parte Americane, avrebbero invece coperto i fianchi più esposti, e precisamente la Norvegia Settentrionale e la zona degli Stretti Turchi, senza peraltro perdere di vista la situazione in Grecia. L’Aviazione Strategica (USA), dal canto suo, avrebbe dovuto intervenire per costringere i Sovietici ad arrestare l’offensiva, magari con la minaccia di usare la bomba atomica, mentre l’Aviazione Tattica avrebbe collaborato a distruggere le forze terrestri avversarie.
Ben presto si vide che sia questo piano, sia i costi della struttura politico-militare che si veniva creando, erano troppo ambiziosi, dato che “le esigenze militari dell’Alleanza implicavano da parte degli Stati membri dei contributi finanziari assai superiori a quelli che essi dichiaravano di essere in grado di offrire. Inoltre, l’efficacia degli sforzi di difesa era compromessa da una serie di fattori sfavorevoli: rialzo dei prezzi, pericolo di inflazione, squilibrio nelle bilance dei pagamenti, difficoltà nella ripartizione delle materie prime”. Iniziava quindi già allora la battaglia per le risorse fra l’Organizzazione e le Nazioni, battaglia che dura ancor oggi.
In effetti, “nel 1949, i dodici Paesi membri originari della NATO disponevano in Europa di meno di venti divisioni, di effettivi di riserva insufficientemente equipaggiati, di meno di 1000 velivoli operativi (molti dei quali datavano dalla seconda Guerra Mondiale ed erano superati), di una ventina di aeroporti non sempre attrezzati per ricevere aerei a reazione e raggruppati in zone avanzate e vulnerabili. La situazione delle forze navali non era migliore: infatti, numerose navi da guerra erano state messe fuori servizio, collocate nella riserva o convertite in trasporti civili”. Sul fronte tedesco, invece, la motivazione della strategia avanzata risiedeva nel fatto che gran parte delle forze terrestri americane, francesi e britanniche erano dislocate nella parte occidentale della Germania, con il ruolo di truppe di occupazione. Queste, quindi, passarono sotto il comando NATO, agli ordini del Comandante Supremo (SACEUR), in modo da consentire una prima linea di difesa prossima alla frontiera delle zone della Germania sotto occupazione occidentale.
Queste esigue forze terrestri, bisogna dirlo, avrebbero dovuto resistere alle circa 95 divisioni sovietiche che, secondo le stime alleate, rimasero schierate sul fronte europeo fino al 1975. Inoltre, le forze marittime avrebbero dovuto tenere le linee di comunicazione transatlantiche sgombre dai sommergibili, che l’Unione Sovietica stava costruendo in gran numero, mettendone in linea fino a 350.
Data la sproporzione fra le ambizioni e le risorse, fu costituito, il 20 settembre 1951 un Comitato Temporaneo del Consiglio Atlantico (noto con la sigla TCC), per “determinare se le autorità militari domandavano troppo o se i Governi non offrivano abbastanza”. Il TCC, dopo quasi un anno di lavoro, propose, al vertice di Lisbona, il 25 febbraio 1952, degli obiettivi di forze pari a “50 divisioni, di 4000 velivoli e di poderose forze navali (sic)”.
Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, va considerato che solo le tre Potenze vincitrici avrebbero mantenuto delle forze navali da battaglia e da sbarco, mentre gli altri Paesi dovevano riconfigurare le loro Marine in modo da svolgere le funzioni ausiliari di scorta ai convogli ed alle forze da battaglia, nonché assicurare la protezione dalle mine, che ci si aspettava fossero posate in grande numero dalle forze navali sovietiche. Era chiaro che, anche qualora fossero conseguiti i livelli di forze proposti (e non lo furono), la difesa dell’Occidente sarebbe rimasta quantomeno precaria. Infatti, “tenuto conto della netta inferiorità delle forze convenzionali della NATO in Europa, l’unica strategia possibile in caso di attacco di qualsiasi natura al territorio della NATO sembrava essere quella della risposta immediata con l’impiego di tutto il potenziale nucleare americano. Ebbe così origine la dottrina strategica delle rappresaglie nucleari di massa”, meglio nota come quella della rappresaglia massiccia. Essa, in sintesi:
“prevedeva che, di fronte ad un’aggressione anche minore in Europa, si scatenasse sino alle estreme conseguenze la reazione delle forze nucleari americane. Stava però il fatto che il monopolio nucleare statunitense divenne subito un quasi-monopolio perché nello stesso 1949 l’Unione Sovietica aveva fatto scoppiare la sua prima bomba atomica, anche se ancora per qualche tempo non apparve in possesso dei vettori per impiegarla. Una dottrina, per essere efficace, deve essere credibile. È credibile, cominciarono a domandarsi soprattutto gli Europei, a mano a mano che passava il tempo, (questa) dottrina? Prese dunque corpo il criterio della difesa avanzata, che costituì (per anni) uno degli elementi caratterizzanti della dottrina strategica della NATO. Ma, per fare la difesa avanzata, occorrono le truppe”.
L’unico modo di conseguire dei livelli di forze convenzionali sufficienti, e quindi alzare il livelli di soglia del ricorso all’arma nucleare era quello di consentire una forma, pur contenuta, di riarmo della Germania Occidentale. Oltretutto, il 26 settembre 1950, visto che “una strategia avanzata implicava la difesa dell’Europa sul territorio tedesco, (il Consiglio) decise di studiare il problema della partecipazione politica e militare della Repubblica Federale di Germania” alla difesa collettiva.
Per dissipare i timori francesi sul riarmo tedesco, fu previsto che questo avvenisse all’interno di un preciso quadro istituzionale, che all’inizio sembrava essere quello della Comunità Europea di Difesa (CED), in cui “i ricostituiti battaglioni (tedeschi avrebbero dovuto essere) incorporati e diluiti in composite divisioni europee”. Tale soluzione, peraltro, non apparve adeguata alla Francia, il cui Parlamento si rifiutò di ratificare il relativo Trattato, sorprendendo tutti coloro che avevano sottovalutato i loro timori. Fallita questa soluzione, non rimaneva che far entrare la Germania
Occidentale nella NATO, cosa che avvenne, con il consenso generale, il 5 maggio 1955, anche a costo di far saltare la collaborazione con l’Unione Sovietica sull’occupazione di quella Nazione, collaborazione che, dopo il blocco di Berlino era ormai solo formale. Va anche ricordato che, con questo atto, da un lato la situazione della Danimarca migliorava decisamente, in quanto il suo isolamento territoriale dal resto dell’Alleanza veniva finalmente a cessare, e dall’altra la prima linea di difesa, contro un possibile attacco, avanzava fino all’Elba. La situazione generale dell’Alleanza, dal punto di vista difensivo, migliorava quindi sensibilmente, anche grazie alla maggiore profondità del dispositivo. In questo periodo fu anche compiuto il primo passo per mettere la NATO in condizione di gestire una crisi. Fu infatti creata, a fine 1961, la Forza Mobile del Comando Alleato d’Europa (AMF), il primo reparto militare multinazionale dell’Alleanza, composto inizialmente da quattro squadriglie di cacciabombardieri, cui si aggiunse, in seguito, anche una componente terrestre; il compito dell’AMF era quello “di dimostrare la solidarietà e l’unità d’intenti della NATO in qualsiasi zona minacciata”, specie sui fianchi dell’Alleanza.
Negli anni successivi fu grandemente aumentato il numero di queste forze, il cui compito era di evitare che una crisi alla periferia dell’Alleanza uscisse di controllo, solo perché non erano stati inviati per tempo i segnali politici alla controparte, circa la volontà NATO di rimanere coesa, resistendo unita alla pressione su di uno dei suoi membri. Era infatti cambiata la situazione, grazie alla nuova leadership sovietica,
il cui Presidente, Khrushev, aveva lanciato le prime proposte di “coesistenza pacifica”. Sua, ad esempio, è la frase: “ho visto come vivono gli schiavi del capitalismo; vivono piuttosto bene. Anche gli schiavi del comunismo vivono piuttosto bene, e dunque lasciamo che vivano come meglio loro piace”.
Se è vero, come è vero, che il momento di una duratura distensione fra i due blocchi non era ancora giunto, pure esistevano degli interessi comuni fra Stati Uniti e Unione Sovietica, che portarono quest’ultima a sostituire la minaccia di un attacco frontale all’Occidente con piccole, anche se frequenti punture di spillo, provocazioni ed iniziative periferiche, tutte ben al di sotto della soglia nucleare, ma nondimeno vantaggiose nella competizione per acquisire posizioni di vantaggio, rispetto all’Occidente. Questa strategia periferica era il classico approccio indiretto, che viene adottato normalmente quando uno scontro frontale abbia scarse probabilità di successo.
Ma gli interessi comuni USA-URSS, negli anni successivi alla crisi di Cuba, avrebbero dimostrato la loro forza, anche a scapito degli Alleati di tutte e due le “Superpotenze”, come queste venivano definite.
Le Forze Nucleari
Il principale settore in cui gli interessi comuni delle due “Superpotenze” si manifestarono, sia pure gradualmente, fu quello del nucleare. Abbiamo parlato, pochi minuti fa, della dottrina della rappresaglia massiccia, ed ora è bene precisare i suoi svantaggi. Essa godeva del consenso formale delle Nazioni NATO, anche perché esse erano decise, per motivi di economia, a non ottemperare agli ambiziosi e costosi programmi di costituzione delle forze convenzionali, proposti dalle Autorità Militari alleate, ma di fatto era vista con notevole sospetto dai governi europei.
Alcuni, infatti, dubitavano che gli Stati Uniti avrebbero superato, al momento decisivo, la cosiddetta “soglia nucleare”, esponendo il loro territorio ad una ritorsione con lo stesso tipo di armi, ormai in possesso anche dei sovietici. In poche parole, il timore era che gli USA dicessero ai loro Alleati: “sopportate per un po’ il dominio sovietico, tanto noi torneremo, appena possibile a liberarvi!”.
Altri, ed in particolare la Germania, sapevano che, in buona sostanza, le armi nucleari alleate sarebbero state usate sul suo territorio. La battuta di Lord Ismay, secondo il quale la NATO era stata inventata “per tenere gli Americani dentro, la Russia fuori e la Germania sotto” aveva infatti un tono sinistro, visto il prevedibile ruolo di materasso, che quest’ultima avrebbe avuto, in uno scontro con l’arma atomica fra i due blocchi. Nel frattempo, da una parte e dall’altra ai bombardieri strategici si aggiungevano i missili, come possibili vettori di tale arma. Le piattaforme di lancio, inizialmente solo terrestri, si diversificarono poi, con l’avvento del sommergibile nucleare. Inoltre, dato il monopolio nucleare USA, in campo NATO, numerose Nazioni cominciarono a premere affinché fosse l’Alleanza, e non i soli Stati Uniti, a decidere quando e se sganciare bombe nucleari, per bloccare un eventuale sfondamento del fronte terrestre da parte sovietica.
L’elezione di J. F. Kennedy alla Presidenza degli Stati Uniti comportò, nel 1961, la nomina di “un comitato, presieduto da Dean Acheson, (con l’incarico di riesaminare l’impostazione politica e militare della NATO. I lavori del comitato si conclusero col suggerimento di privilegiare la strategia e la difesa convenzionale in Europa a scapito di quella nucleare”. In effetti, il rapporto di forze fra i due schieramenti contrapposti nell’Europa Centrale era meno sfavorevole del passato, ed una difesa convenzionale credibile poteva essere organizzata, con uno sforzo suppletivo da parte degli Alleati
europei.
In proposito, peraltro, “la Germania (Occidentale) manifestò il suo disaccordo, sostenendo che una diminuzione della credibilità del deterrente nucleare occidentale avrebbe aumentato il rischio di un’eventuale aggressione sovietica. A quel punto, il Segretario Generale della NATO, Dirk Stikker, avanzò la proposta di trasferire l’esistente arsenale nucleare americano nell’Europa occidentale sotto il controllo operativo dell’Alleanza, che avrebbe provveduto a creare un’adeguata organizzazione plurinazionale per l’impiego di questo deterrente”.
Veniva in tal modo riesumata una proposta, risalente al 1959, da Robert Bowie, consulente del Dipartimento di Stato, il quale aveva delineato “il progetto di una flotta alleata di superficie armata con missili Polaris”. Il progetto, mirante a scoraggiare la creazione di un numero di deterrenti autonomi nazionali, come ad esempio voleva la Francia, “divenne noto come forza multilaterale (MLF).
I piani prevedevano una flotta di 25 navi di tipo mercantile, armate con complessivi 200 missili Polaris A-3. ogni nave avrebbe avuto un equipaggio di 200 uomini, provenienti da almeno tre diverse Marine alleate”.
In tale ambito va visto il progetto, sviluppato dalla nostra Marina Militare, di un sistema di lancio a polvere pirica, che fu installato sull’incrociatore Garibaldi, nel corso del suo ammodernamento di mezza vita, e che fu collaudato con successo, durante la campagna condotta nelle acque statunitensi. La Marina voleva, infatti, che l’Italia avesse una voce più forte, nel processo decisionale sull’uso del deterrente nucleare, anziché ritrovarsi, di fatto, nella scomoda posizione della Germania.
Il dissenso delle Nazioni sulla proposta americana della MLF bloccò l’iniziativa; la Francia sviluppò la sua force de frappe nazionale, mentre la Gran Bretagna, che non riusciva a sviluppare il suo missile balistico Skybolt, si accordò con gli Stati Uniti, che le cedettero i Polaris per i suoi sottomarini nucleari, a condizione che questi fossero “a disposizione della NATO e a fianco della futura MLF, oltre ad essere impiegabili, in caso estremo, per la difesa degli interessi nazionali britannici”.
Oltre ai sottomarini, la Gran Bretagna accettò di “assegnare al SACEUR la forza di bombardieri del tipo V”, durante la sessione di Ottawa del Consiglio, il 24 maggio 1963. Inoltre, nella stessa sessione, “allo scopo di realizzare un equilibrio soddisfacente fra armamenti nucleari e convenzionali, (fu anche deciso) di proseguire lo studio dei problemi interdipendenti della strategia, delle esigenze di forze e delle risorse disponibili atte a soddisfarle”.
Come si vede, la decisione salvava in parte le proposte della commissione Acheson, insieme alla sostanza del progetto della MLF, che peraltro non fu portata avanti, nella sua versione marittima, a causa della prematura morte del Presidente Kennedy. Solo pochi anni dopo, il deterrente britannico, assegnato alla NATO, fu integrato da velivoli cacciabombardieri a doppio ruolo messi a disposizione da più Nazioni, quando le bombe nucleari tattiche furono sviluppate.
La riorganizzazione delle strutture dell’Alleanza, per gestire il nuovo strumento, procedette spedita, con la costituzione di due organismi: il Comitato per le Questioni della Difesa Nucleare (NDAC), aperto a tutti i Paesi membri, ed il Gruppo per la Pianificazione Nucleare (NPG), inizialmente composto da sette membri – e per questo sottoposto al Comitato di Pianificazione Difesa (DPC) – e poi allargatosi, fino a diventare l’unico organismo deputato a trattare le questioni nucleari, in modo indipendente.
Nel frattempo, negli USA l’Amministrazione Johnson proseguiva nell’elaborazione di una linea nuova in materia nucleare, che comprendeva due elementi-chiave, e precisamente il disarmo e la cosiddetta “Risposta Flessibile”. Come aveva osservato, anni prima, l’allora Senatore J. F. Kennedy, “né gli Stati Uniti né l’Unione Sovietica vogliono una guerra nucleare. Né l’una né l’altra nazione vuole appiccare il fuoco che può distrugger la civiltà – lo sappiamo benissimo – prima ancora che si siano estinte le fiamme; la guerra che lascerebbe non una Roma intatta, ma due Cartagini distrutte, e che, nel migliore dei casi, farebbe arretrare di una generazione la fatica dell’una e dell’altra nazione verso il progresso economico, sociale e culturale”.
A questo punto, bisogna fare una considerazione generale. Sul disarmo, uno dei pilastri storici del pensiero politico del partito democratico, va anzitutto osservato che, mentre “il riarmo può essere stabilizzante, per contro il disarmo, ad esempio quello occidentale del primo dopoguerra, può essere destabilizzante”, spesso a causa dell’esistenza di obiettivi non palesati di una fra le parti in causa.
In effetti, negli anni 1919-20, le proposte USA di disarmo navale nascondevano, neanche troppo bene, la volontà americana di “non sottomettersi ad una politica che li avrebbe costretti a sedere supinamente con le braccia incatenate, e permettere alla Gran Bretagna di essere il prepotente del mondo, (visto che proprio) la Gran Bretagna aveva minacciato gli interessi (USA) più spesso e più seriamente che tutte le altre Nazioni del mondo messe insieme”. Furono solo le pressanti difficoltà economiche, ed in primo luogo il forte indebitamento britannico verso gli Stati Uniti, a costringere la prima Nazione ad accettare, seppur malvolentieri, le aspirazioni americane verso la parità navale. L’obiettivo americano di ottenere la parità navale, ed il rifiuto iniziale, da parte della Gran Bretagna a concederla, avevano peraltro portato le due Nazioni sulla soglia della rottura delle relazioni diplomatiche, e questo precedente pesava nelle menti degli Europei, quando l’Amministrazione USA venne fuori con le proposte di disarmo nucleare, o quanto meno di un controllo degli armamenti di tal genere.
Come temuto, fu appunto il primo passo, quello “dell’accordo americano-anglo-sovietico sul divieto parziale di sperimentazioni nucleari nell’atmosfera, nello spazio e sotto la superficie del mare, accordo che fu firmato al Cremlino il 5 agosto” del 1963 a dare l’avvio al distacco della Francia dall’organizzazione militare NATO, da una parte, e dalla rottura dell’amicizia cino-sovietica dall’altra. Le altre Nazioni dell’Alleanza, Italia inclusa, firmarono invece il trattato di non proliferazione senza obiettare.
Mentre procedevano le trattative fra i due blocchi per la riduzione degli armamenti nucleari, con le Nazioni NATO che avallarono e sostennero ogni passo di tale processo, il 12 dicembre 1967, “nel Comitato di pianificazione della difesa i Ministri approvarono (la) nuova dottrina strategica, che adattava la strategia della NATO agli ultimi sviluppi politici, militari e tecnologici, (ed era) basata su una gamma elastica ed equilibrata di risposte, sia convenzionali che nucleari, a tutti i livelli di aggressione o di minaccia di aggressione”.
Ufficialmente, la nuova strategia della “Risposta Flessibile”, come essa fu spiegata anni dopo da un SACEUR, Il Generale Rogers, era “intesa a dissuadere dalla guerra e, in caso di fallimento dell’azione dissuasiva, ad impiegare le forze militari dell’Alleanza in modo da far pervenire il conflitto ad una conclusione soddisfacente, con un minimo di perdite civili e militari e senza perdite di territorio da parte dei Paesi della NATO”.
In sostanza, si prevedeva una “flessibilità di reazione che impedisse all’aggressore di prevedere con sufficiente approssimazione il tipo, l’intensità ed il luogo della reazione della NATO, lasciandolo nell’incertezza nella valutazione delle possibilità del nemico, e quindi nella valutazione dei rischi cui andava incontro”.
La visione del defunto Presidente Kennedy aveva quindi trionfato, sia pure a spese degli imperativi di sicurezza degli Alleati, che si sentivano sicuri sotto il cosiddetto “ombrello nucleare” e lo vedevano rimpicciolirsi a vista d’occhio. Ma l’opinione generale era che, malgrado gli alti e bassi, il rapporto fra i due blocchi fosse diventato una competizione, piuttosto che un confronto armato.
In quell’epoca, infatti, furono soprattutto i conflitti limitati, nelle varie parti del mondo, dal Vietnam al Medio Oriente a segnare la politica internazionale, in omaggio alla strategia periferica dell’Unione Sovietica, che, come è stato notato, era un vero e proprio approccio indiretto per minare alle fondamenta il potere economico occidentale, dipendente dalle materie prime fornite dal mondo sottosviluppato, che il Cremlino si riprometteva di sollevare contro gli “Imperialisti”.
Solo dopo il crollo dell’Unione Sovietica, peraltro, filtrarono le prime voci sulle proposte che la leadership militare sovietica aveva avanzato, nei primi anni ’70, per un attacco preventivo in Europa, al fine di evitare il tracollo economico dell’URSS e sfruttare le ricchezze europee. Queste proposte, fortunatamente, vennero rigettate dal successore di Khrushev, Breznev, il quale invece tentò di ricorrere all’arma della guerra economica, con i risultati che conosciamo.
Proprio in quegli anni, e precisamente il 12 dicembre 1979, la minaccia sovietica di schierare, lungo la frontiera occidentale del Patto di Varsavia, dei missili di teatro a lungo raggio, noti con la sigla SS-20, portò il Consiglio alla cosiddetta “doppia decisione” di schierare missili nucleari moderni, i Pershing II ed i Cruise (missili da crociera), ma nel contempo avanzare ulteriori proposte per un efficace controllo degli armamenti. Quello che interessa, in questa sede, è che la prima decisione confermava, di fatto, l’importanza della strategia di Difesa Avanzata, insieme a quella della
Risposta Flessibile, sulle quali era basata la deterrenza.
Presupposto indispensabile per l’attuazione della strategia NATO, che era stata sostanzialmente confermata dalla “doppia decisione”, era la cosiddetta “triade di forze: nucleari strategiche, nucleari di teatro e convenzionali”. Vedremo fra poco che questa strategia avrebbe avuto, qualche anno più tardi, una nuova applicazione, il FOFA.
La questione dei fianchi
1) Il Mediterraneo
Il conflitto arabo-israeliano fu l’occasione che l’Unione Sovietica attendeva per portare la sua strategia periferica più vicina al cuore dell’Europa, e precisamente in quello che da sempre ne è stato il “ventre molle”, il Mediterraneo.
In quegli anni, il Capo di Stato Maggiore della Marina Sovietica, l’Ammiraglio Sergej Gorshkov si era convinto – e a ragione – che:
“gli U-Boot erano stati sconfitti nelle due guerre mondiali perché al Germania non era stata in grado di fornir loro un adeguato supporto aereo e di superficie. Egli era determinato (a far si) che i suoi sottomarini fossero ampiamente supportati, e diede per certo che gli USA e le altre potenze della NATO avrebbero analogamente supportato i loro. Egli era quindi deciso ad avere armi aeree e imbarcate per distruggere le navi di superficie, oltre ai sottomarini, preferibilmente lontano dall’Unione Sovietica”.
Questo approccio consentiva anche all’Unione Sovietica di usare la flotta sovietica “come strumento della politica statale, con lo scopo ultimo di creare uno stato comunista universale, attraverso la rivoluzione mondiale. La flotta sovietica doveva essere sufficientemente forte per supportare le guerre di liberazione nazionale e sventare l’aggressione imperialista”, e quindi il suo rafforzamento era perfettamente coerente con la strategia periferica adottata in quegli anni dal Cremlino.
Con lo scoppio della “Guerra dei Sei Giorni’, la Marina sovietica iniziò quindi a dislocare nel Mediterraneo “un numero crescente di unità, fino a un massimo di due incrociatori, quindici caccia e dodici sommergibili, raggiunto alla metà di ottobre”. Peraltro, anche la NATO e gli Stati Uniti avevano fatto altrettanto, e in tal modo il Mediterraneo divenne un’area di confronto fra le opposte flotte.
In tale ambito, il 21 ottobre 1967 si verificò l’affondamento del caccia israeliano Elath, ad opera di alcune motovedette missilistiche egiziane.
L’unità era stata “colpita da tre missili antinave Stix lanciati in due riprese da due vedette classe Komar trasferite dall’URSS alla Marina egiziana. Il lancio fu effettuato con l’assistenza sovietica, dall’interno del porto” di Port Said. Le navi sovietiche, inquadrate nella V Eskadra, usufruirono da allora della base di Tartus in Siria e, fino alla rottura delle relazioni fra Egitto ed URSS, anche dell’ampia base di Alessandria, i cui impianti consentivano il loro raddobbo. Quando dislocate nel Mediterraneo, le navi sovietiche avevano anche identificato alcuni punti di ancoraggio in acque
internazionali, nel Golfo di Hammamet in Tunisia, nonché a sud del Peloponneso.
Il clamoroso affondamento dell’Elath, ampiamente pubblicizzato, malgrado presentasse alcuni aspetti atipici (la nave era superata, avendo quasi trent’anni di vita, il suo pattugliamento si svolgeva quotidianamente, nella stessa zona e con una regolarità degna dei Vigilantes, ed era quindi un bersaglio sicuramente disponibile etc.) era di fatto un preciso segnale per le forze da battaglia americane, che da allora in poi non avrebbero più potuto navigare, sentendosi sicure, in presenza di una nave missilistica sovietica.
Questa infatti avrebbe potuto attaccarle all’improvviso in qualsiasi momento, grazie a questo nuovo missile, e per di più da una distanza superiore rispetto alla gittata delle armi occidentali.
L’evento provocò una serie di contromisure, a livello tattico, che andavano da un maggiore sforzo di sorveglianza dei sottomarini sovietici, al cosiddetto “ombreggiamento” delle loro navi missilistiche di superficie, quando in mare, oltre ad accelerare lo sviluppo di missili antinave e di difesa di punto, oltre a sistemi antimissile a corta gittata.
La questione era di enorme importanza, in quanto metteva in pericolo il principale fattore di vantaggio occidentale, appunto il suo potere marittimo (ricordate la “lotta della terra contro il mare” preannunciata dall’Ammiraglio Di Giamberardino?), tanto che l’Ammiraglio Small, Comandante in Capo del Sud Europa, tenne ad evidenziare che; “la capacità della NATO di controllare il Mediterraneo era a rischio. (Infatti) la difesa della Regione Sud si è concentrata in tre punti: l’Italia Settentrionale, i cui centri industriali sono minacciati da un attacco; il fronte balcanico, dove la Bulgaria si contrappone alla Grecia e alla Tracia turca e la Turchia Orientale. I nostri piani si sono finora basati sull’ipotesi di una superiorità marittima nell’intero Mediterraneo”.
Con la perdita del potere marittimo, per la presenza della V Eskadra sovietica, i tre fronti rimanevano infatti isolati, senza possibilità di ricevere i necessari rinforzi, che potevano arrivare loro solo via mare. La questione era talmente seria che giunse fino al Consiglio, destinatario del Rapporto sui futuri compiti dell’Alleanza, approntato dal Ministro belga Harmel, il quale incluse appunto, fra i due compiti principali dell’Alleanza, “la difesa delle regioni esposte, in particolare del Mediterraneo, dove gli avvenimenti del Medio Oriente avevano portato ad un’espansione delle attività sovietiche” La V Eskadra sovietica, anche nota con l’acronimo NATO di SOVMEDRON (Soviet Mediterranean Squadron), ebbe peraltro un effetto positivo, vuoi per le Marine alleate del bacino, costringendole a sviluppare quei sistemi d’arma e di scoperta subacquea meglio adatti all’ambiente operativo, vuoi per la stessa NATO, il cui comando del Mediterraneo sviluppò gradualmente quella “capacità di controllo dei grandi spazi marittimi” – analoga a quanto già si faceva per lo spazio aereo dell’Alleanza – capacità che si sarebbe rivelata poi preziosa, dopo la fine della Guerra Fredda.
Il dispositivo di sorveglianza marittima, denominato Eagle Eye, era basato su pattugliamenti regolari dei velivoli antisommergibili, integrati dalle comunicazioni di avvistamento che le navi da guerra alleate inviavano, ad ogni incontro casuale con navi sovietiche oltre, beninteso, alle informazioni intelligence ed alle intercettazioni elettroniche. A terra, in una centrale operativa, tutte le varie informazioni venivano messe insieme, in modo che, come in un mosaico, le singole tessere, una volta disposte con cura, l’una vicino all’altra, si trasformassero in un quadro coerente di
situazione.
L’invasione della Cecoslovacchia, nel frattempo, aveva messo in crisi il processo di distensione, e in questa nuova atmosfera di tensione, prima a Reykjavik, nel giugno 1968 e quindi il 16 novembre successivo, il Consiglio Atlantico inviò un monito alla controparte, affermando che “qualsiasi intervento sovietico che toccasse direttamente o indirettamente la situazione in Europa o nel Mediterraneo avrebbe provocato una crisi internazionale, con gravi conseguenze”. In effetti, “la penetrazione sovietica, sotto forma di presenza navale, sempre più massiccia, costituiva una minaccia potenziale contro il fianco meridionale dell’Alleanza”.
Per dimostrare la determinazione e la coesione alleata nel bacino, fu quindi costituita, nel 1969, “la Forza navale su chiamata (on call) del Mediterraneo, già approvata, in linea di principio, nel gennaio precedente”. Questa forza, costituita da navi scorta, una per ogni Nazione alleata del bacino, inclusi gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, si riuniva due volte l’anno, per un mese, e svolgeva le classiche attività di “suasion”, altrimenti note come “diplomazia navale”. Solo dopo la fine della Guerra Fredda questa forza divenne permanente, come vedremo parlando di quel periodo.
La situazione nel bacino migliorò decisamente, nel tempo, specie dopo la rottura delle relazioni fra Egitto ed Unione Sovietica, ed ai conseguenti accordi di Camp David: alle navi sovietiche, di conseguenza, fu negata la disponibilità della base di Alessandria, il che pose all’URSS dei problemi logistici insuperabili, malgrado l’invio di navi supporto nel porto di Tartus, costringendo il Cremlino a ridurre progressivamente la consistenza della V Eskadra, fino ad azzerarla, con la crisi del 1989.
2) Il fianco Nord
La difesa contro un’eventuale invasione della Norvegia proveniente dalla penisola di Kola, attraverso la striscia di territorio norvegese nota come Finmark, fu affidata fin dall’inizio, nel 1952, al Comando Supremo Alleato dell’Atlantico (SACLANT), che peraltro era il massimo coordinatore di tutte le operazioni navali.
Suo, infatti, era il Concetto delle Operazioni marittime (CONMAROPS), nel quale erano identificate e discusse “le cinque campagne navali. (Oltre a quella del Mar di Norvegia), le altre quattro erano (quelle) dell’Atlantico, dei Mari poco profondi, delle linee vitali del Mediterraneo, e del Mediterraneo Orientale, tutte interdipendenti fra loro e con le operazioni terrestri”.
Per la campagna del Mar di Norvegia, considerata quella di massima priorità, fu adottata, come per le forze aero-terrestri, la “Forward Strategy”, la strategia avanzata, e lo strumento per effettuarla fu la “Striking Fleet Atlantic”, la forza d’attacco dell’Atlantico, basata su portaerei e Gruppi anfibi, in massima parte americani, integrati da forze navali britanniche, oltre che da unità di scorta, appartenenti ad altre Marine alleate. Lo scopo della strategia avanzata era di “neutralizzare la più pericolosa concentrazione di potere marittimo sovietico, la Flotta del Nord, (ed il suo compito era) di essere disponibile per la difesa avanzata di quell’area, incluso un possibile rinforzo di terra” alle forze di difesa terrestre, che peraltro erano state messe sotto il comando del SACEUR. La prima “dimostrazione della capacità (alleata) di difendere la Norvegia, nonché di minacciare la Marina sovietica nelle sue basi, (ebbe luogo) nel 1952, con la prima esercitazione atlantica della NATO, (denominata) Main Brace, consistente in operazioni di portaerei al largo del Vestfiǿrd”, con la partecipazione di ben sei portaerei maggiori, che potevano essere dotate all’occorrenza di armi nucleari, tre portaerei leggere e tre gruppi anfibi, che però eseguirono i loro sbarchi in Danimarca, per evitare che questi ultimi apparissero azioni provocatorie.
In proposito, il Segretario Generale della NATO, Lord Ismay, dichiarò nel 1954 che “la flotta d’attacco avrebbe condotto operazioni offensive e di supporto (alle forze terrestri), piuttosto che la difesa diretta delle rotte commerciali dell’Atlantico”.
Quando la strategia della “Risposta Flessibile” fu adottata, come abbiamo visto, nel dicembre 1967, fu necessario aggiornare anche la “Strategia Avanzata”, dando maggior enfasi sia alle capacità convenzionali, sia a quelle di gestione delle crisi.
Nel frattempo, il SACEUR aveva ottenuto l’autorizzazione di costituire, oltre alla Forza Aerea Mobile (AMF-A), già esistente fin dal 1961, anche una componente terrestre, a livello di Brigata (AMF-L), con il compito di schierarsi rapidamente, nelle zone minacciate di aggressione, in modo da esercitare un’azione dissuasiva.
Naturalmente, il ruolo principale di questa nuova forza era di schierarsi, fin dall’inizio di una crisi, sui fianchi dello schieramento, in Norvegia ed in Turchia, ma soprattutto nella prima zona di operazione. Per inciso, l”Italia ha sempre partecipato a tale forza, quando questa veniva radunata per le esercitazioni semestrali, con un Battaglione Alpino, il Susa, che fu specialmente attrezzato per operare a temperature polari, in quell’area della Norvegia dove il clima è particolarmente rigido.
Da parte sua, SACLANT, sempre nell’ambito della Risposta Flessibile, “sviluppò il concetto delle Forze Marittime di Contingenza, da costituire con breve preavviso, prelevando unità prenotificate (earmarked) in tempo di pace, per supportare i piani di contingenza di SACLANT, fin dall’inizio di una crisi. Nell’ambito di tale processo, la Forza Permanente dell’Atlantico (STANAVFORLANT) nacque all’inizio del 1968, come forza multinazionale sotto comando NATO”. La composizione di questa forza era – ed è ancor oggi – la stessa di quella del Mediterraneo, essendo costituita da una nave scorta per ogni Nazione partecipante. Parallelamente, il nuovo Segretario Generale della NATO, Manlio Brosio, chiese a SACLANT di compilare uno studio sulla Strategia Marittima dell’Alleanza. Il rapporto, presentato nel 1969, prevedeva che “le forze marittime di contingenza fossero mobilitate per fornire una risposta controllata (all’inizio di una crisi) e per scoraggiare ulteriori aggravamenti (escalation).
Se, peraltro, la deterrenza dovesse fallire, le forze marittime occidentali sarebbero usate per contenere e distruggere i sottomarini sovietici il più avanti possibile, mentre le portaerei d’attacco avrebbero appoggiato le operazioni terrestri ed anfibie, specialmente nei fianchi”.
Nel Nord, la linea di contrasto ai sottomarini fu fissata nella strettoia fra la Groenlandia, l’Islanda e la Gran Bretagna, il cosiddetto “GIUK Gap”, cosa che non piacque alla Norvegia, che si trovò di colpo dalla parte sbagliata del perimetro di difesa marittima. Va detto, peraltro, che ogni possibilità di contrastare i sottomarini sovietici più a nord, lungo un asse che passasse vicino all’Isola degli Orsi, era resa praticamente impossibile dalla confluenza, in quell’area, di correnti calde e fredde, che impedivano l’uso efficace dei sistemi di scoperta subacquea.
Fu in parte per le proteste della Norvegia, ma anche per l’avvento di una nuova generazione di leader navali americani, che nel 1977 i Ministri della Difesa ordinarono “una radicale rivalutazione della situazione alleata sul mare. Si riteneva (infatti) che i concetti navali della NATO fossero, ad un tempo, poco definiti e troppo reattivi. La strategia marittima dell’Occidente sembrava correre il pericolo di fossilizzarsi sulla Linea Maginot del GIUK Gap”.
Nel 1978, di conseguenza, i due SACLANT successivi, Ike Kidd e Harry Train sostennero la necessità di “una risposta bilanciata alle forze navali sovietiche nell’area dell’Atlantico Orientale, e che la NATO fosse perparata e intenzionata a sfruttare al massimo il tempo di preallarme e l’azione anticipatrice per posizionare le forze d’attacco in posizione tale da scoraggiare la flotta da combattimento nemica”.
Sulla base di questi punti di vista, i tre Comandi Strategici approntarono un nuovo Concetto di Operazioni Marittime, che fu presentato ed approvato dal Consiglio nel 1980. Della cinque campagne navali che abbiamo visto prima, a SACLANT ne venivano ora affidate solo tre, mentre la responsabilità delle due campagne del Mediterraneo passava al SACEUR, in nome del principio dell’unicità di comando in una determinata area. Ma quello che era più importante, nel Concetto, erano i tre principi informatori: “primo, il contenimento, per impedire alla flotta sovietica di
raggiungere l’oceano, vuoi non scoperta nel periodo di tensione, vuoi senza opposizione in tempo di guerra; secondo, la difesa in profondità, con la prontezza a combattere con i Sovietici al limite avanzato dell’area NATO, lungo le loro rotte di uscita, ed a difesa sia della guerra (terrestre) alleata, sia del naviglio mercantile, e terzo – ed il più importante – mantenere l’iniziativa”.
Questo approccio offensivistico ebbe la sua consacrazione, pochi anni dopo, nel 1984, con la dottrina della Marina Americana del “dispiegamento avanzato” delle portaerei e dei sottomarini d’attacco. Mentre le prime dovevano scoraggiare l’aggressione nemica, i secondi avevano il compito di “stanare” i sommergibili sovietici lanciamissili balistici dai loro santuari protetti nel Mare Artico.
Per le portaerei, peraltro, un dispiegamento in posizione avanzata comportava una maggiore vulnerabilità ad attacchi aerei di massa. Fu provato quindi a far operare le portaerei all’interno del Vestfjǿrd, le cui alte pareti rocciose costituivano una protezione contro i lanci di missili aria-mare a lunga gittata, sviluppati dai Sovietici. L’esito positivo dell’esperimento portò a considerare le operazioni all’interno del fiordo una procedura standard, con la soddisfazione generale, salvo quella dei poveri comandanti, che dovevano far navigare ad alta velocità le loro enormi navi, in quelle
acque relativamente ristrette.
Ma si era giunti alla fine degli anni ’80, e l’implosione dell’Unione Sovietica pose fine alle campagne NATO nel Mar di Norvegia. Il Fianco Nord non era più minacciato, da quando la flotta russa era costretta a rimanere in porto, per mancanza di fondi.
Il problema della risposta convenzionale
1) L’Attacco alle Forze di Seconda Schiera (FOFA)
La scelta sovietica in favore sia della Strategia Periferica, sia soprattutto della Guerra Economica, in un quadro di crescente interdipendenza fra Est ed Ovest aveva portato, da parte occidentale, ad elevare progressivamente, negli anni, la soglia di intervento nucleare, ormai ritenuto una sorta di “assicurazione sulla vita” che frenava le due parti, rendendo impossibili eventuali colpi di testa, da parte di una eventuale leadership impazzita.
Poiché, peraltro, l’Unione Sovietica aveva aumentato la consistenza delle sue forze dislocate nei Paesi dell’Europa Orientale, l’importanza delle forze convenzionali crebbe notevolmente anche per la NATO, tanto da convincere il Consiglio a spingere le Nazioni a compiere un ulteriore sforzo per ammodernare e potenziare tale componente.
In effetti, questa dislocazione in profondità delle forze del Patto di Varsavia aveva tre ragioni: in primo luogo, la configurazione del teatro operativo in Germania era, per i Sovietici ad imbuto, visto che “il terreno può recepire soltanto un determinato numero di battaglioni del Patto di Varsavia affiancati, costringendo il rimanente a rimanere (sic) fuori del contatto, collocandosi come forza di seconda schiera”.
Inoltre, numerose truppe erano state spostate in Asia, per le esigenze dell’impegno sovietico in Afghanistan; infine, questo schieramento aveva anche lo scopo di far vivere le truppe a spese dei Paesi ospitanti, come a suo tempo aveva fatto Napoleone; il risultato però era la sensazione di una minaccia crescente per la NATO, il che aveva portato ad esaminare a fondo il problema di come reagire.
La base di discussione, fra Alleati, fu uno studio presentato al Consiglio nel 1982 sul raffronto di forze fra i due blocchi, che poneva l’accento sulla “crescente superiorità numerica delle forze dei Paesi del Patto di Varsavia, specie per quanto riguardava gli effettivi, i sistemi missilistici di teatro a lungo raggio (LRINF), i sottomarini, gli aerei ed i carri armati”.
Va detto che, in quegli anni, la consistenza delle forze americane e canadesi in Europa si era ridotta, tanto che il SACEUR, per rassicurare gli Alleati europei, aveva messo a punto, sempre nel 1982, un piano di rinforzo rapido, per far giungere tempestivamente le forze da oltre oceano al primo manifestarsi di una crisi.
Malgrado questi provvedimenti, il rapporto complessivo delle forze rimaneva sfavorevole, ed un ulteriore raffronto fra i due blocchi lo confermò, anche se dovette ammettere che non tutte le forze avversarie sarebbero state disponibili in tempi brevi: come si è visto, la guerra in Afghanistan aveva comportato un notevole rischieramento di forze sovietiche verso Est, in Asia, dati gli impegni crescenti in quel teatro.
Questa ammissione spinse il Comitato di Difesa a commissionare uno studio al SACEUR, affinché rivedesse la pianificazione, alla luce di questo fatto. La conseguente “Direttiva di pianificazione a lungo termine per l’attacco alle forze di seconda schiera (FOFA)” fu presentata ed approvata nel novembre 1984 dal Comitato, diventando in tal modo il nuovo concetto difensivo dell’Alleanza.
Come il Generale Rogers, che allora era il SACEUR, scrisse a suo tempo, il FOFA era stato pensato già nel 1979:
“per ridurre ad un livello accettabile, mediante l’impiego di armi convenzionali, l’entità delle forze nemiche capaci di giungere fino alle nostre posizioni difensive principali. Originariamente i nostri sforzi erano concentrati sul miglioramento del nostro potenziale attuale di interdizione aerea e sull’attacco alle forze di seconda schiera del Patto di Varsavia; ma nel mettere a punto la nostra dottrina abbiamo potuto renderci conto che nel quadro dell’esercitazione Zapad ’81 svolta dal Patto di Varsavia erano stati sperimentati dei Gruppi Operativi di Manovra (OMG), che indicavano un ritorno, quale parte integrante della dottrina offensiva sovietica, all’idea dei “gruppi mobili” propria
della seconda Guerra Mondiale. Alla luce di questo sviluppo abbiamo incominciato, in seno allo SHAPE, a definire “forze di seconda schiera” tutte le forze del Patto di Varsavia al di là delle truppe di contatto diretto”.
Quello che preoccupava gli Alleati era, in particolare, vuoi la prospettiva di attacchi ad ondate, che avrebbero messo a dura prova la resistenza prolungata delle difese, vuoi l’esistenza degli OMG, capaci di penetrare in profondità, dietro le linee di resistenza, attaccando “comandi, impianti di lancio di armi nucleari e complessi per il supporto logistico” Il FOFA, ampiamente pubblicizzato, aveva peraltro anche lo scopo di lanciare un forte segnale politico, in quanto avvertiva il Patto di Varsavia che la reazione della NATO si sarebbe concentrata sui territori dei cosiddetti “Paesi Satelliti” i quali, quindi, avrebbero sofferto devastazioni massicce: la Germania non era più l’unica vittima designata, ma anche loro sarebbero stati coinvolti. Questa prospettiva, indubbiamente, raffreddò ulteriormente il già scarso entusiasmo di queste Nazioni verso l’alleanza con l’Unione Sovietica.
2) Il Miglioramento della Difesa Convenzionale
Parallelamente alle discussioni sul FOFA, il Consiglio dovette far fronte alla crescente irritazione degli Stati Uniti verso i loro Alleati europei, che non avevano cura, secondo gli Americani, di mantenere le loro forze ai livelli qualitativi e quantitativi adeguati alla minaccia, contando fin troppo sulla potenza militare USA. Come disse il Generale Rogers, “la nostra incapacità a sostenere le forze in campo con uomini, munizioni e materiali se non per un breve periodo, ci ha costretto ad ipotecare la difesa della NATO sulla risposta di carattere nucleare”.
In effetti, al SACEUR non era sfuggito che, nell’opera di ammodernamento degli strumenti militari, le Nazioni europee “risparmiavano” sul numero di missili e munizioni per i nuovo armamenti, non dotando questi della prevista capacità di far fuoco per tutti i 30 giorni previsti.
Il pericolo di questa omissione fu definito con il termine di “disarmo strutturale, vale a dire il processo per effetto del quale il crescente onere finanziario occorrente per procurarsi gli armamenti e le forze per la difesa determina automaticamente la riduzione delle disponibilità e una minore capacità militare”.
Per sventare questo fenomeno, il Senatore Nunn propose al Congresso USA un emendamento alla legge di bilancio della Difesa, nel quale veniva “postulato un collegamento più diretto tra il mantenimento delle forze americane in Europa approssimativamente (sic) al loro livello e la comune percezione, in tutta l’Alleanza, dell’impegno ad una difesa convenzionale credibile”.
Bisogna dire che questo emendamento non era altro che l’ennesimo tentativo, nella eterna lotta degli USA, affinché gli Alleati non considerassero la NATO come un sistema “per fare la guerra a buon mercato”, se non addirittura a spese altrui. Per anni, infatti, gli USA, attraverso la NATO, avevano spinto gli altri membri a devolvere il 3% del loro PIL alla Difesa, senza ottenere alcun successo.
L’enfasi sul rinnovamento tecnologico degli altri Alleati, poi, aveva anche un risvolto commerciale, visto che gran parte della tecnologia necessaria avrebbe dovuto essere acquistata negli USA. Questo aspetto portò in quegli anni, come reazione alle pressioni da oltre oceano, al fiorire di progetti cooperativi di sviluppo degli armamenti fra i vari Paesi europei. Si può quindi dire che l’Iniziativa per il Miglioramento delle Difese Convenzionali sia stato l’incentivo principale per la costituzione dell’industria di difesa europea, quale esiste oggi.
L’immediato dopo-Guerra Fredda
In quella lotta sulle risorse, anche gli Europei avevano alcuni argomenti per ribattere alle obiezioni americane, accusandoli di aver creato un sistema che li “ghettizzava” focalizzandoli sulla difesa del Continente, mentre loro erano liberi di agire nel resto del mondo, usando la forza come strumento della loro politica globale.
Come osserva infatti un profondo studioso di strategia, per mezzo secolo “all’interno della NATO, la ripartizione dei ruoli strategico-militari era (stata) chiara: lasciare all’Europa l’onere di provvedere alla maggior parte delle forze sul continente europeo, fornendo il 70% della truppe NATO, mentre gli Stati Uniti potenziavano la loro mobilità strategica interforze secondo la formula, da loro sperimentata con successo più volte, dalla guerra nel Pacifico in poi, della proiezione di potenza”.
Ma il problema principale era che, con la scomparsa, quasi di colpo, della minaccia sovietica, il rischio che la NATO finisse per perdere la sua ragion d’essere era reale. Una eventuale scomparsa della NATO, peraltro, avrebbe riportato indietro, di oltre due secoli, l’orologio dei rapporti fra i Paesi occidentali, con il rischio di trasformare l’Atlantico, da strada della solidarietà fra paesi legati fra loro da valori comuni, in un fossato invalicabile di incomprensioni.
Il primo provvedimento preso, per sventare un tale rischio, fu quello di ammettere che le missioni della NATO non fossero più limitate alla sola difesa collettiva, secondo l’Articolo 5 del trattato, ma potessero aver luogo anche fuori area (OOA), settore che fino ad allora era stato una riserva di caccia quasi esclusiva degli Stati Uniti.
Furono quindi concepite, sia pure con molta prudenza, delle possibili missioni di proiezione di forza, per fini di sicurezza collettiva, sia pure limitate alle zone immediatamente confinanti il territorio dell’Alleanza. Il motivo di questa prudenza era dovuto a due motivi. Anzitutto, le opinioni pubbliche occidentali vedevano, in quel drastico cambiamento di situazione, un motivo valido per ridurre sensibilmente i bilanci della difesa, “cogliendo i dividendi della pace”, come si disse allora.
Una tale ubriacatura era alimenta da dai profeti dei cosiddetti “endisms, diventati di moda soprattutto negli Stati Uniti: dalla fine della storia, alla fine dello Stato westfaliano; dalla fine della guerra a quella dell’importanza dei territori”. La conseguenza fu una cospicua riduzione degli impegni di spesa militare, malgrado fossero già evidenti i primi sintomi di una crescente instabilità, tipica conseguenza della fine di un’epoca di confronto fra blocchi.
La seconda ragione di quella prudenza era dovuta al fatto che le forze degli Alleati europei della NATO erano fortemente sbilanciate, essendo a prevalenza aeroterrestre, come si è potuto notare, ma soprattutto proiettabili con ridotti tempi di preavviso solo in minima parte.
Infatti, se si escludevano le due AMF, quella terrestre e quella aerea, nonché le navi scorta della STANAVFORLANT, il resto era dichiarato alla NATO solo per la difesa collettiva, e quindi sarebbe stato al massimo “concesso caso per caso” all’Alleanza, previa decisione politica sull’opportunità di partecipare o meno ad una determinata operazione. In definitiva, mentre prima, oltre al consenso ed all’aperto dissenso, le Nazioni avevano poco da opporre alle pressioni degli altri membri, quando questi insistevano per fare qualcosa, ora invece esse potevano “approvare ma non partecipare” ogni iniziativa, e quindi il loro peso aumentava. Ma le questioni che occupavano gli statisti, molto più che le questioni del bilancio militare, erano relative al terremoto che si stava svolgendo, subito al di là dei loro confini, e che minacciava di coinvolgere le Nazioni dell’Europa occidentale, soprattutto per effetto di flussi migratori e di violenza d’importazione.
I Concetti Strategici del 1991 e del 1999
1) Introduzione
Uno degli obblighi principali di ogni organizzazione di sicurezza collettiva è quello di concordare periodicamente, fra gli stati membri, quale approccio strategico debba essere seguito, nella presente situazione geopolitica, per far fronte alle minacce, ai rischi ed alle sfide che li potranno coinvolgere collettivamente, nel breve e nel medio termine. Questo tipo di documento, infatti, “fornisce la guida generale per lo sviluppo delle politiche di dettaglio e dei piani militari”. Non deve, quindi, essere riscritto spesso, ma solo quando le circostanze esterne, oppure un radicale cambiamento dei rapporti di forza interni lo impongano. Oltretutto, come si potrà vedere fra poco, scrivere quelle poche paginette comporta uno sforzo enorme, di mesi se non di anni, data l’elevata posta in gioco per gli stati membri, che sono quindi tenaci nel voler inserire gli aspetti che riflettono maggiormente i loro punti di vista, e vogliono che le loro preoccupazioni ed i loro interessi vitali siano tenuti nel dovuto conto. La NATO, in particolare, aveva inizialmente mantenuto segreti i suoi concetti strategici fin dal 1950, rendendo pubbliche solo le loro linee essenziali – poco più che una semplice enunciazione dei titoli delle principali azioni previste – finché, con la fine della Guerra Fredda, ed in assenza di un nemico dichiarato, non prevalse l’esigenza di ricercare il consenso, rispetto all’ansia di segretezza. L’Unione Europea, quando ha recentemente costituito la Politica Europea di Sicurezza e Difesa, ha seguito la stessa strada, per le stesse ragioni. Il fatto che il Concetto Strategico, a differenza dei documenti discendenti, non abbia più alcuna classifica di segretezza è quindi il risultato di una chiara scelta politica, in favore di un adeguato livello di trasparenza, nei confronti dei parlamenti e delle opinioni pubbliche dei paesi membri, oltre ad essere una dichiarazione d’intenti nei confronti di terzi, siano essi amici, neutri oppure potenziali avversari.
Fra i due obiettivi di questo approccio, oggi quello interno è, peraltro, prevalente su quello esterno, e questo riflette la difficoltà che la NATO incontra nell’ottenere facilmente sia l’accettazione degli sforzi economici da sopportare, per il conseguimento dei fini indicati, sia il sostegno alle iniziative militari che gli eventi potrebbero imporre.
Dicevamo prima che non c’è bisogno di ripubblicare questo tipo di documento con frequenza elevata: la NATO infatti ha definito il suo concetto strategico, prima nel 1991 e, l’ultima volta, nel 1999, mentre l’Europa lo ha fatto neanche tanto dopo, nel 2003. Ma conviene ora esaminare, uno alla volta, i due documenti, la loro evoluzione e le loro prospettive future, partendo dal più vecchio, quello appunto del 1991.
2) Il Concetto Strategico 1991
Come notava il “Concetto Strategico”, prontamente preparato nel 1991 per dare una base concettuale al lavoro futuro dell’Alleanza, “è prevedibile che ( i rischi per la sicurezza alleata) possano derivare dall’instabilità dovuta alle gravi difficoltà economiche, sociali e politiche, comprese quelle causate degli antagonismi etnici e dalle controversie territoriali che stanno interessando molti Paesi dell’Europa centrale e orientale”. La minaccia, quindi, era sostituita da “Sfide e Rischi” e, per la prima volta, oltre alla “Difesa” il Concetto riportava il termine “Sicurezza”,sulla quale veniva osservato che “la sicurezza e la stabilità contengono elementi politici, economici, sociali ed ambientali, oltre che l’indispensabile dimensione difesa”.
Oggi, a noi sembra naturale che la sicurezza abbia tutte queste sfaccettature, che in realtà sono le dimensioni della “Grande Strategia”; vale peraltro la pena di richiamare un’altra definizione di tale concetto, risalente agli anni ’80, visto come: “l’esistenza di una situazione per cui un Paese, od un gruppo di Paesi, non rischia di essere aggredito da un altro con un attacco militare o con la minaccia di esso, grazie ad un deterrente (superiorità militare, sistema di alleanze od altro), tale da dissuadere in modo certo ogni potenziale aggressore”. All’epoca, come si vede, la minaccia sovietica aveva l’effetto di polarizzare l’attenzione generale sui soli aspetti militari della sicurezza.
Fra le varie sfide ed i rischi possibili, il Concetto poneva l’accento sui nuovi pericoli derivanti dalla proliferazione delle armi di distruzione di massa, dell’interruzione del flusso di risorse vitali, degli atti di terrorismo e di sabotaggio. Nel complesso, si osservava nel documento, “permangono molte incertezze sul futuro e molti rischi relativi alla sicurezza dell’Alleanza”, rischi che, peraltro, erano “molteplici e multidirezionali”.
Comunque, al momento non si poteva escludere che l’Unione Sovietica, rimasta priva di Alleati, ma ancora in piedi, riuscisse a ricuperare potenza e creare nuovi problemi, specie agli ex-satelliti, colpevoli di averla tradita. Infatti, malgrado la firma del Trattato CFE, non si poteva trascurare, a proposito dell’URSS “che le sue forze convenzionali sono significativamente più consistenti di quelle di qualsiasi Stato europeo e il suo vasto arsenale nucleare è paragonabile solo a quello degli Stati Uniti”.
Va riconosciuto, inoltre, che il nuovo Concetto non si limitava a guardare ad Est, sia pure in una nuova ottica, ma per la prima volta affermava che : “gli Alleati desiderano inoltre mantenere rapporti pacifici e non conflittuali con i Paesi della sponda meridionale del Mediterraneo e del Medio Oriente”.
In questo quadro, “lo scopo fondamentale della NATO è quello di salvaguardare la libertà e la sicurezza di tutti i suoi membri con mezzi politici e militari, in conformità con i principi dello Statuto delle Nazioni Unite”, e si riaffermava l’importanza del legame transatlantico dichiarando, con una preveggenza notevole, che “la sicurezza dell’America settentrionale è permanentemente legata a quella dell’Europa”.
Di conseguenza, i compiti fondamentali della NATO cambiavano drasticamente, diventando:
-“il mantenimento di un potenziale militare sufficiente a prevenire la guerra e a fornire una difesa efficace;
-una capacità globale di affrontare con successo le crisi che incidono sulla sicurezza dei suoi membri (più avanti si parla anche di prevenzione dei conflitti).
Per questo, le forze dovevano essere in grado di “fornire una vasta gamma di scelte di risposta convenzionale”;
-“il perseguimento di sforzi politici che favoriscano il dialogo con le altre Nazioni e la ricerca attiva di un’impostazione cooperativa della sicurezza europea, anche nel settore del controllo degli armamenti e del disarmo”. In effetti, ed il Concetto lo notava, la dimensione politica cresceva rispetto al passato.
Per quanto riguardava l’approccio strategico, veniva confermato l’abbandono, “ove necessario, della difesa avanzata, in favore di una presenza avanzata ridotta e di modificare il principio della risposta flessibile allo scopo di rispecchiare la loro minore dipendenza dalle armi nucleari”.
Veniva anche tenuto conto del desiderio USA di ridurre la consistenza delle forze dislocate in Europa, asserendo che, “a mano a mano che progredisce il processo di sviluppo di un’identità di sicurezza e di un ruolo di difesa europei – che si riflette nel rafforzamento del pilastro europeo all’interno dell’Alleanza – i membri europei dell’Alleanza assumeranno un maggior grado di responsabilità per la difesa dell’Europa”.
Comunque, pur in un quadro nel quale l’Alleanza si preparava a fornire “risposte controllate e tempestive”, venivano previsti “tempi di allerta più brevi cui le regioni settentrionale e meridionale saranno soggette rispetto alla regione centrale, e, nella regione meridionale (dovrà tenersi conto) del potenziale di instabilità e delle capacità militari nelle zone circostanti”.
Giova quindi notare che fu questo Concetto a seppellire definitivamente la vecchia impostazione del fronte centrale e dei due fianchi, introducendo per la prima volta la constatazione che l’asse di difesa e sicurezza, anziché andare in direzione Est, ora guardava a Sud-Est, trasformando la regione centrale in un’area arretrata, idonea quindi all’addestramento ed alla riunione delle forze di riserva strategica.
Anche il problema di una maggiore mobilità e dispiegabilità delle forze veniva affrontato, sia pure facendo attenzione a non porsi dei traguardi economicamente irraggiungibili. Infatti, si parlava solo di “accrescere, schierare e movimentare le forze rapidamente e selettivamente”. Non era ancora giunto il momento di pensare alle forze di spedizione (expeditionary), quelle, per intenderci, capaci di un ingresso in zona di operazioni in presenza di contrasto, ma si riteneva bastassero le forze dispiegabili (deployable).
Le forze venivano suddivise in tre gruppi, il primo, quello delle forze di reazione immediata, il secondo, comprendente le forze di reazione rapida, ed il terzo, nel quale confluivano le forze di difesa principale, “che forniranno il grosso delle forze necessarie a garantire l’integrità territoriale dell’Alleanza e il libero uso delle proprie linee di comunicazione”.
A parte l’errore concettuale insito in quest’ultima frase – non si comprendeva che proprio le linee di comunicazione sono sempre l’aspetto più vulnerabile di ogni operazione oltremare – il Concetto aveva una notevole validità, e permise alla NATO di affrontare con successo gli impegni che, poi, essa avrebbe dovuto affrontare.
In definitiva, il Concetto Strategico 1991 introduceva importanti innovazioni, e definiva delle linee d’azione adeguate ai tempi, senza eccessivi voli pindarici, ma con notevole lungimiranza, individuando bene i possibili impegni futuri.
Questi impegni, peraltro, si rivelarono molto maggiori e differenziati di quanto si potesse prevedere, dato il collasso dell’Unione Sovietica e, soprattutto, l’implosione violenta della Jugoslavia. Le quattro operazioni che la NATO dovette svolgere, negli anni successivi, andarono infatti ben al di là – specie la seconda – di quanto fosse stato ipotizzato nel Concetto.
Ricordiamole brevemente:
– Operazioni SHARP GUARD (interdizione marittima) e DENY FLIGHT (interdizione aerea/compellenza), in supporto alle forze ONU in Bosnia:
– Operazione SFOR (stabilizzazione) in Bosnia, in sostituzione della forza ONU;
– Operazione ALLIED FORCE (intervento aereo e interposizione navale) di “interferenza umanitaria” per il conflitto in Kosovo.
Fu ritenuto quindi, nel 1999, che il Concetto Strategico andasse aggiornato, vuoi per tenere conto della definitiva scomparsa del cinquantennale nemico, vuoi per dare coerenza rispetto a quanto veniva svolto sul campo.
3) Il Concetto Strategico NATO del 1999
Come capita spesso, quando si verificano cambiamenti di situazione di tipo evolutivo, e non improvvisi e rivoluzionari, il concetto del 1999 discende direttamente, con limitati aggiustamenti, dal documento precedente, scritto bene, anche se piuttosto in fretta, nel 1991, sotto l’impatto dell’improvviso scioglimento del Patto di Varsavia, prima che la crisi della ex Jugoslavia si manifestasse in tutta la sua virulenza.
Con questa nuova versione, quindi, si volevano consolidare gli approcci che erano stati a suo tempo adottati per reagire a questo cambio radicale della situazione in Europa, ma si voleva anche far evolvere ancora di un passo l’identità dell’Alleanza. Essa, infatti, si era semplicemente identificata fino a quel momento, con la difesa collettiva, pur con qualche limitata concessione alla possibilità di svolgere operazioni “fuori area”, sia pure subordinatamente alla priorità massima, per intenderci quella difensiva.
Rispetto al 1991, ora il concetto doveva anzitutto riflettere il fatto che la NATO si era trovata, quasi per caso a dover fronteggiare la perdurante e violenta instabilità nei Balcani, avendo l’ONU fallito con il suo approccio eccessivamente morbido, oltre a dover soddisfare l’esigenza di creare una rete di collaborazione ed un’architettura di sicurezza che coinvolgesse quella parte d’Europa che,fino ad allora, era inserita nel Patto di Varsavia, oppure si era tenuta equidistante fra i due blocchi.
Naturalmente, nessuno voleva mettere mano al Trattato, la cui modifica avrebbe messo in serio rischio la sopravvivenza della stessa Alleanza, in un momento storico nel quale si continuava a parlare di “fine della storia” o anche della urgenza di “cogliere i dividendi della pace”, termini che celavano la voglia di farla finita con spese militari significative.
La repressione serba nel Kosovo, peraltro, aveva confermato a tutti che, se si voleva la pace e la stabilità in Europa, bisognava continuare ad impegnarsi militarmente, per contenere gli eccessi e stabilizzare le aree del continente ancora arretrate e sofferenti per i passati decenni di regimi assolutistici.
Nel Concetto, inoltre, la giustificazione di questo tipo di azione militare doveva essere integrata dall’intensificazione di quell’opera di cooptazione, sotto varie forme, degli altri Paesi europei, che era stata appena accennata nel documento precedente, in modo da creare un insieme di strutture associative, che dessero la possibilità ad ognuno di cooperare con la NATO nelle forme politicamente preferibili, vuoi come membro, vuoi come partner, vuoi infine come interlocutore.
In quei mesi, infatti, le prime tre Nazioni che avevano dichiarato l’intenzione di entrare nell’Alleanza: la Polonia, l’Ungheria e la Cechia stavano completando il programma di ingresso nell’organizzazione, e si sperava di continuare, negli anni successivi, con la cooptazione delle altre, mentre l’idea sui neutrali ed i Paesi non ancora pronti ad abbracciare l’Occidente, in quel momento raggruppati nel Consiglio di Cooperazione NATO (dal bellissimo acronimo francese COCONA) era di inserirli in una serie di partenariati.
Peraltro, alcuni Paesi membri, come la Turchia e la Norvegia, per non parlare delle tre Nazioni prossime ad entrare, si dimostravano sempre fortemente attaccati al concetto di difesa collettiva, sentendo ancora sul collo il fiato caldo dell’orso russo, che da secoli li aveva angustiati, e molte volte aggrediti.
Naturalmente, le Nazioni transatlantiche, insieme a quelle del Nord Europa, apparentemente libere da qualsiasi minaccia, propendevano fin da allora per un’Alleanza molto più “movimentista” rispetto al passato, quindi pronta ad operare lontano dalla sua storica area di competenza, comprendente l’Atlantico settentrionale e centrale, oltre al nostro continente.
Tutti, invece, concordavano nell’enfatizzare l’importanza del controllo degli armamenti, oltre a sottolineare il pericolo della proliferazione delle armi di distruzione di massa, o meglio della loro vendita sul mercato internazionale, da parte di alcune schegge impazzite del frantumato Impero Sovietico.
Quindi, per il concetto 1999 si dovette cercare un punto d’incontro fra tutte queste esigenze, anche a costo di farlo apparire il prodotto di quello che oggi viene definito “cerchiobottismo”. Vediamo quindi come riuscì a sbrogliare questa intricata matassa, facendolo peraltro con notevole abilità. La prima parte del testo, ovviamente, non poteva non essere dedicata alla difesa collettiva, in nome della salvaguardia della libertà e della sicurezza di tutti i membri, oltre a riaffermare i valori comuni, e precisamente la democrazia, i diritti umani e la legalità. Peraltro, veniva riconosciuto che un’aggressione maggiore (Large Scale Article 5) era altamente improbabile, e quindi poteva essere ipotizzata solo nel lungo termine.
Per garantire la sicurezza nel nuovo contesto, l’Alleanza si doveva adattare, riformando la sua struttura di comando, introducendo il nuovo concetto del quartier generale proiettabile, la Combined Joint Task Force (CJTF), e riconoscendo al suo interno l’Identità Europea di Sicurezza e Difesa (ESDI), oggetto di un lungo dibattito, negli anni precedenti, da parte dei Paesi europei che criticavano l’influenza prevalente degli Stati Uniti, nell’Alleanza, al momento delle decisioni-chiave.
Va detto che gli USA avevano assecondato queste ultime rivendicazioni, alla luce della possibilità che gli Europei si lanciassero in imprese post-coloniali, specie in Africa, azioni che essi non avrebbero potuto sottoscrivere. Essi, inoltre, speravano che l’identità europea avrebbe costituito un incentivo per un maggiore contributo, da parte loro, alle forze per la sicurezza collettiva, malgrado le forti pressioni “disarmiste” esistenti in quel periodo.
Quindi, il concetto sottolineava l’importanza di collaborare con l’ONU, nonché con le altre architetture di sicurezza create, in quegli anni, nel continente europeo, riconoscendo, a tal proposito, che “organizzazioni che si rinforzano a vicenda erano divenute un aspetto centrale del nuovo panorama di sicurezza”. Peraltro, veniva riconosciuto “che la sicurezza dell’Alleanza dipendeva dalla (capacità di reagire ) all’ampia varietà di rischi militari e non-militari, multi-direzionali e spesso difficili da prevedere”.
Andando sul concreto, venivano fissati tre “Compiti Fondamentali di Sicurezza, e precisamente:
-Sicurezza: provvedere una delle indispensabili fondazioni per uno stabile panorama di sicurezza Euro-Atlantico, basato sulla crescita delle istituzioni democratiche e sull’impegno alla risoluzione pacifica delle dispute;
-Consultazione: costituire un foro transatlantico di consultazione su ogni argomento che colpisse gli interessi vitali degli Alleati;
-Deterrenza e Difesa: scoraggiare e difendersi da qualsiasi minaccia di aggressione contro uno stato membro dell’Alleanza”.
Inoltre, “per aumentare la sicurezza e la stabilità dell’area Euro- Atlantica, (si prevedeva di sviluppare le seguenti azioni):
-Gestione delle Crisi: essere pronti a contribuire alla prevenzione di conflitti e di impegnarsi attivamente nella gestione delle crisi, compreso (lo svolgimento di) operazioni di risposta alle crisi;
-Partenariati: promuovere ampi partenariati, cooperazione e dialogo con altri Paesi dell’area Euro-Atlantica, con lo scopo di una maggiore trasparenza, fiducia reciproca e di una capacità di un’azione comune (di questi Paesi) con l’Alleanza”.
Oltre a fissare i compiti, il concetto stabiliva i principi da seguire, che erano, in estrema sintesi:
-continuare a preparare le forze per l’intero spettro delle possibili missioni. Questo era logico, a quell’epoca, visto che non era ancora chiara l’evoluzione del panorama geo-strategico, ma anche una porta per introdurre il concetto delle operazioni lontane, sia pure come possibilità che andava esaminata caso per caso.
Va detto che l’interpretazione di questo compito, da parte dei Comandi Strategici, fu un incoraggiamento per sostenere la dispiegabilità delle forze, anche con la scusa che queste ultime erano valide in ogni situazione, dalla difesa collettiva delle zone periferiche dell’area Euro-Atlantica alla gestione delle crisi, dimenticando che ogni aumento di quel tipo di forze avrebbe comportato massicce riduzioni dei numeri complessivi.
Comunque, in quel mentre, alcune Nazioni, come la Turchia, rimasero sorde a questi pressanti inviti, avendo maggiori esigenze di difesa, tanto da incrementare le loro forze statiche, indispettendo la NATO. Questi Paesi, quindi, su questo argomento, tendono ancor oggi a fare orecchi da mercante alle pressioni dei Comandi Strategici, preferendo consistenze numeriche significative, anche a scapito della loro qualità;
-dividere equamente i ruoli, i rischi e le responsabilità, il che portava a confermare, da un lato, l’importanza di mantenere una significativa presenza militare USA in Europa, malgrado il governo avesse il desiderio di ritirarne quante più possibili. In effetti, le basi avanzate USA nel nostro continente si sarebbero poi rivelate essenziali, anche per gli interventi nell’Asia sudoccidentale, sia in Iraq, sia in Afghanistan. Dall’altro lato, questa formula, alquanto sibillina, era un avallo implicito alle pressioni USA per un maggiore contributo finanziario e di forze, da parte degli altri Alleati, che fino ad allora avevano “consumato sicurezza” (il cosiddetto Burden Sharing);
-mantenere gli arrangiamenti pratici per gli sforzi collettivi, sia dal punto di vista finanziario, sia organizzativo. In effetti, l’Alleanza intravedeva il bisogno di rimodellarsi, ma il quadro di situazione non era ancora chiaro (ed il consenso necessario per intraprendere una radicale ristrutturazione mancava allora, come del resto è mancato anche di recente);
-confermare l’importanza del finanziamento multi-nazionale, vuoi per il Bilancio Militare, vuoi per le infrastrutture, con la precisazione che le risorse sarebbero state gestite avendo come riferimento i requisiti militari dell’Alleanza, man mano che questi ultimi fossero evoluti, in base ai cambiamenti di scenario. Questo principio, più che rispondere alle critiche di molti Paesi, che volevano dei ritorni adeguati ai contributi, era una specie di “altolà” per i rimanenti membri, specie quelli nuovi, che contavano sulla prodigalità della NATO, per sistemare le loro infrastrutture nazionali, praticamente a costo zero;
-sviluppare lo ESDI, eventualmente sotto il controllo politico della WEU. Come sappiamo, questo principio venne rapidamente riposto in un cassetto, con il quasi-scioglimento della WEU, e la trasformazione della ESDI in ESDP, ma all’interno dell’UE;
-la conferma del mix di armamento convenzionale-nucleare, per assicurare la credibilità della deterrenza.
4) La strada verso il nuovo Concetto Strategico
Prima di vedere quali sono le tendenze in atto e le idee lanciate dai vari attori, nell’ambito del processo di aggiornamento degli scopi, dei compiti e degli obiettivi dell’Alleanza, è bene ricapitolare gli eventi accaduti, da quando il Concetto 1999 fu emanato, dopo la tradizionale benedizione da parte dei Capi di Stato e di Governo.
L’evento più traumatico, che ha influenzato la maggior parte degli eventi successivi, è stato senza dubbio l’attentato delle Torri Gemelle, frutto di una incredibile sottovalutazione del rancore nutrito da una parte del mondo islamico verso gli Stati Uniti, malgrado le azioni svolte da questi, e dall’Alleanza in generale, a favore delle minoranze mussulmane nei Balcani.
Questa tragedia, però ha scatenato lo storico e pericolosissimo senso di insicurezza del popolo americano, fonte di durature inimicizie e quindi di relazioni internazionali perturbate per molti anni a seguire, quando viene risvegliato. Tale sentimento era sopito fin dal lontanissimo 1814, ma la sua durevolezza è ben nota.
Due episodi basteranno a far capire questa ipersensibilità: anzitutto, il 3 dicembre 1910, un comandante americano, il futuro Ammiraglio Sims, durante una visita a Londra, dichiarò, nel fare un brindisi durante una cerimonia al Municipio, che “se l’integrità dell’Impero Britannico fosse seriamente minacciata da un nemico esterno, esso avrebbe potuto contare sull’assistenza di ogni uomo, ogni nave ed ogni dollaro da parte dei loro simili di oltremare”. Questo discorso fu pubblicato sui giornali americani, sollevando un putiferio, tanto che, dietro le forti pressioni del Congresso, il Presidente Taft dovette rimproverare pubblicamente Sims, salvo poi osservare filosoficamente, quando quest’ultimo fu inviato in Gran Bretagna come comandante della Squadra Navale USA, durante la Prima Guerra Mondiale, che era l’unica volta in cui egli aveva comminato un rimprovero ad un ufficiale “per aver detto esattamente quello che ora egli sta facendo”. La Gran Bretagna, infatti, era ancora vista, nell’immaginario collettivo del Paese, quasi un secolo dopo la guerra del 1812-14, come il nemico principale da temere.
Successivamente, durante la Seconda Guerra Mondiale, il governo fece osservare il massimo segreto sulle cause dei ripetuti incendi delle foreste dell’ovest, causati da palloni-sonda giapponesi, che sfruttavano le correnti occidentali di alta quota, le cosiddette jet streams, per non creare un sentimento di panico, che avrebbe influenzato, in senso difensivo, la strategia seguita nell’oceano Pacifico.
Di conseguenza, all’indomani del gravissimo attentato alle Torri Gemelle, la pressione dell’opinione pubblica fu tale che non rimaneva al governo USA altra via d’uscita che scatenare la vendetta. Questa si concretizzò, come sappiamo, con l’intervento in Afghanistan e l’invasione dell’Iraq, due decisioni che non si può dire siano state la conclusione di un ragionamento strategico freddo e approfondito.
Mentre l’Alleanza riuscì ad evitare il suo coinvolgimento in Iraq, grazie anche alla temporanea predilezione USA verso le coalizioni “usa e getta” – un approccio un po’ ottocentesco – altrettanto non fu possibile con l’Afghanistan, malgrado la riluttanza di alcuni, fra cui l’Italia, a lasciarsi coinvolgere in una lotta a coltello contro una parte della popolazione di quel Paese.
Ma non era quello il solo problema che la NATO ha dovuto affrontare in quel periodo. Vi era, anzitutto, da applicare le clausole di difesa collettiva, il tanto evocato Articolo 5, per solidarietà con gli Stati Uniti, il che è un indice di come spesso l’attuazione di un trattato sia speculare, rispetto all’intento iniziale. Le operazioni Eagle Assist ed Active Endeavour furono quindi una tangibile ed efficace dimostrazione di solidarietà transatlantica. La prima, peraltro, fece finalmente apprezzare l’utilità dell’Alleanza all’opinione pubblica americana, e la seconda fu importante perché ebbe successo nel limitare l’entità di possibili infiltrazioni di agenti ed esplosivi da parte delle organizzazioni terroristiche.
Parallelamente, i Balcani si erano riaccesi, nel 2004, e ci volle del bello e del buono per calmare le acque: solo la promessa di indipendenza servì a calmare i Kosovari, nonché i loro cugini, gli Albanesi della Macedonia- FYROM, mentre la Bosnia, piano piano, continuava il lento cammino verso la normalizzazione, e fu quindi affidata alla reponsabilità dell’Unione Europea.
Tutta questa serie di eventi traumatici aveva però lasciato una serie di strascichi emotivi, a causa delle accese discussioni che si erano verificate all’interno dell’Alleanza, dove gli approcci da seguire non erano per nulla condivisi. Ricordate, non vi è nulla di peggio, nel concepire collettivamente una strategia, di quelle “emozioni disinteressate, persino irragionevoli, (che) possono essere l’unico fattore che la diplomazia non riesce a padroneggiare”.
Neanche l’ingresso di ben sette nuovi membri prima, e di altri due lo scorso anno, anch’essi, peraltro, forti fautori di una “NATO da Articolo 5” servì a far prevalere le tesi anglo-americane sul problema più scottante sul tappeto, l’Afghanistan, tanto che ancor oggi le inutili recriminazioni sui “Caveat” posti da alcuni membri continuano. I nuovi membri, infatti, a parte le loro priorità strategiche, orientate ad usufruire della difesa collettiva, come si è visto, non sono ancora in grado di fornire contingenti apprezzabilmente numerosi.
Un altro argomento, poco noto ma che ha invelenito i rapporti interni fra le varie trutture dell’Alleanza, è la lotta a tre, fra la componente politica che vuole ridimensionare quella militare, e la struttura di comando che vuole liberarsi della pesante tutela del Comitato Militare, avendo quindi contatti diretti con i rappresentanti politici. Inutile dire che, dopo un primo momento favorevole a queste tendenze, da parte del Consiglio Atlantico, ora sta prevalendo una maggiore prudenza, visto che, in molte Nazioni, è proprio il Comitato Militare, nelle persone dei Capi di Stato Maggiore, a possedere le chiavi della concessione o meno delle forze alla NATO.
Infine, le numerose iniziative di partenariato, oltre a completare la serie di nuovi membri, si sono orientate verso l’Asia e l’Oceania, sia per cooptare i membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo, sia per creare legami più stabili con quei Paesi progrediti che partecipano alle operazioni in Afghanistan, nell’ambito della coalizione, diretta dagli USA.
L’ultimo ma importante elemento di situazione è stato il progressivo deterioramento dei rapporti fra la NATO e la UE. Le ragioni sono molto serie e complesse, tutte di carattere politico, compresa l’opposizione interna all’UE, da parte degli organismi della Commissione, tanto che il riavvicinamento francese alla NATO ha portato solo ad una parziale schiarita, con la definizione di due, ben delimitate aree di cooperazione.
5) L’elaborazione concettuale in corso
La consapevolezza che, dall’ultima edizione del Concetto Strategico NATO, troppi eventi non contemplati a suo tempo fossero accaduti, tanto da rendere palese la parziale obsolescenza del documento, ha spinto pochi mesi fa il Segretario Generale a proporre l’elaborazione di una sua nuova versione, malgrado fossero imminenti le elezioni presidenziali USA, e fosse chiaro che ci sarebbe probabilmente stato un cambio della guardia.
La tempistica di elaborazione, di solito frenetica, è stata di conseguenza rallentata, anche se le attività ufficiose, da parte dei “Think tanks” e delle Associazioni Atlantiche, hanno avuto modo di partire, con le conseguenti proposte ed idee ardite, “fuori della scatola”, come si dice oltre oceano, nel corso di riunioni e seminari.
Questo processo, apparentemente disordinato, al quale chi vi parla sta partecipando, ha peraltro il vantaggio vuoi di suscitare, fin dall’inizio, le profonde reazioni degli interlocutori delle varie Nazioni alleate, vuoi di sentire cosa pensi l’opinione pubblica, vuoi soprattutto di avviare tempestivamente il processo di eliminazione delle idee palesemente non perseguibili.
Abbiamo visto cosa è accaduto in questi anni. Su questa base, il Comitato Atlantico Italiano, in contatto con le corrispondenti Associazioni degli altri Paesi, ha approntato una lista di argomenti, sui quali l’autorità politica e quella governativa dovranno esprimere il loro orientamento, in modo da non trovarsi poi ad inseguire gli eventi, quando il vero dibattito inizierà.
I lavori, comunque, hanno permesso di definire alcuni punti fermi. Soprattutto, non ci si dilungherà nel trattare tutte le questioni sul tappeto, anche se le (tardive) preoccupazioni sull’Afghanistan rischiano di dominare ed invelenire ancora una volta il dibattito. La tendenza che si sta affermando è quella di prendere cinque sei questioni fondamentali, cercando soprattutto di guardare al futuro, anziché limitarsi a sistemare le pendenze attuali. A tal proposito, merita analizzare il recente discorso che il Segretario Generale della NATO ha tenuto ad un importante seminario, che si svolge annualmente a Monaco, in quanto egli ha riassunto, molto bene, gli orientamenti che stanno gradualmente prendendo corpo. Anzitutto, in questo discorso viene riconosciuto che il compito centrale, “il core business”, della NATO è stato per i passati 60 anni quello di rendere sicura, stabile e democratica l’area Euro-Atlantica, e dovrà continuare ad esserlo nel futuro”. Si vede che questa affermazione è un gesto di rassicurazione vero i membri posti alla periferia esterna dell’area, ma è anche la premessa per definire “i ruoli che l’Alleanza dovrebbe giocare nel XXI secolo”.
Nello studio di questi ruoli, al di là di una collaborazione più stretta con la Russia, l’ONU e l’Unione Africana, il punto-chiave, per il Segretario Generale, è “la necessità di non limitarsi alla difesa collettiva, ma anche di riflettere sulla sicurezza collettiva, nonché sulla dimensione umana della sicurezza”.
Su questo delicato argomento, le cui insidie sono ben descritte dal noto “paradosso della sicurezza”, secondo il quale il suo ottenimento in misura elevata provoca un crescente senso di insicurezza nei vicini ( e questo spiega l’atteggiamento russo), il Segretario Generale ha dimostrato quanto pragmatico sia il suo approccio: infatti, egli ha sostenuto che “la NATO deve assumersi l’onere di missioni reali (solo) quando essa è portatrice di un valore aggiunto, (come ad esempio) in materia di sicurezza energetica, per mare, oppure proteggendo i passaggi obbligati, (chiamati goulets
d’étranglement), dei flussi energetici”. Il choke point control, che abbiamo visto la scorsa settimana, sembrerebbe quindi un approccio che si intende perseguire, nel futuro, da parte della NATO.
Gli altri due argomenti riguardanti la sicurezza, appena accennati dal Segretario Generale, sono stati la difesa contro gli attacchi cibernetici, un settore nel quale la NATO è tecnicamente molto efficace, e l’esame delle implicazioni dovute al cambiamento del clima.
Indubbiamente, anche se l’inverno che stiamo vivendo sembra smentire le previsioni pessimistiche degli anni scorsi, bisogna ricordare che, storicamente, i flussi di intere popolazioni, che tentavano di sfuggire a situazioni climatiche intollerabili, sono sempre stati un motore della storia, nonché una causa di instabilità, se non di aperti conflitti. In questo campo, la capacità, di cui la NATO dispone, nel controllo dei grandi spazi marittimi, come abbiamo visto prima, può essere un ausilio importante.
Cosa rimane fuori, da questa prima analisi? A mio parere, tre sono gli argomenti che entreranno, prima o poi, nel dibattito, complicandolo oltremodo: in primo luogo, il concetto strategico non potrà fare a meno di enfatizzare l’importanza del legame transatlantico, ancora di più rispetto al passato. Mai come oggi gli Stati Uniti sono stati così deboli, economicamente come operativamente, ed è fin troppo facile marginalizzarli, all’interno dell’Alleanza. Questo sarebbe un errore gravissimo, visto che è l’Europa ad avere più bisogno degli USA, che non il contrario, data la nostra lentezza nel reagire alle crisi economiche ed alla nostra scarsa attenzione alla ricerca, per non parlare delle nostre divisioni senza fine, oggi appena nascoste da un sottile strato di sabbia.
Inoltre, in una situazione di risorse decrescenti, le questioni del bilancio comune e della distribuzione dei poteri – quest’ultima già causa di tensioni, come si è visto – sono due nodi che possono paralizzare l’Alleanza, vista la decrescente disponibilità degli stati ricchi ad elargire somme senza limiti ai membri meno abbienti, da una parte, e l’intenzione, da parte di alcuni, di ottenere sempre maggiori contributi di forze e di denaro dagli altri Alleati, per delle missioni che, talora, più che rispecchiare gli interessi vitali di tutti, appaiono essere motivate dalla salvaguardia degli interessi solo di una piccola parte dei membri.
Infine, esistono spinte da oltreoceano, più che giustificate, per valorizzare di nuovo la dimensione marittima dell’Alleanza. Non è questo solo un tentativo di ridurre il notevole peso sopportato, per conto degli altri Alleati, dalla Marina USA, che viene caricata da missioni sempre più complesse e numerose.
In effetti, sono le Marine a consentire le cosiddette “Strategie dallo Scopo Limitato”, peraltro perseguite dalla stessa NATO negli anni ’90, prima che le Marine europee vedessero tagliati i loro bilanci, in modo drastico, e che i loro sforzi venissero riorientati, per effetto dell’eccessivo entusiasmo verso gli interventi diretti, “senza paracadute”, come in Afghanistan.
Fra queste strategie, è importante evidenziare il ruolo ben consolidato dell’Alleanza negli interventi di “Soccorso Umanitario”, un’attività che è stata uno strumento-chiave per stabilire amicizie forti e durature con i Paesi colpiti da tali disastri, fin da quando una Squadra russa si dislocò a Messina, immediatamente dopo il terremoto del 1908.
In questi ultimi anni, la NATO ha dimostrato la sua prontezza e flessibilità, organizzando interventi sia nel caso del ciclone Katrina, sia in occasione del terremoto del Pakistan, e vi sono quindi buoni motivi per evidenziare, nel futuro Concetto, questa capacità, un essenziale strumento della politica, essendo compresa fra le missioni della strategia di “suasion” – in pratica – il moderno sostituto della “diplomazia navale”.
In conclusione, la strada difficile ed insidiosa per definire il nuovo Concetto Strategico sarà il test definitivo della vitalità dell’Alleanza, la cui resilienza, nei decenni, ha sorpreso anche i più scettici. Grazie alla NATO, le nostre Nazioni hanno prosperato e sono state in grado di progredire insieme, nel promuovere la sicurezza e la pace. Sarebbe un delitto, ed anche un errore strategico, permettere che la NATO finisca nel dimenticatoio.